I confindustriali di Carlo Bonomi devono smetterla di atteggiarsi a fenomeni

“Questa politica fa più danni del Covid-19”, tuona il chierichetto mannaro lunbard Carlo Bonomi da Crema, neo eletto presidente di Confindustria nazionale. Cui fa eco la replica sul loffio andante del già figiciotto (da FGCI, gli under del PCI) ministro Roberto Gualtieri: “ingenerosi”. A riprova che il “gattamortismo” doroteo ormai è diventato il tratto culturale prevalente anche nel personale post-comunista del Pd.

Sicché, più che lo scialbo titolare del Mef, quanto colpisce dal punto di vista antropologico è il profilo da “ultima raffica” del confindustriale; riprova di un tangibile passaggio di testimone nel personale guida dell’organizzazione datoriale.

Dal Dopoguerra fino agli anni Ottanta tale vertice fu appannaggio di esponenti dell’aristocrazia industriale e finanziaria. Da Angelo Costa a Furio Cicogna, da Giovanni Agnelli a Vittorio Merloni passando per Guido Carli. Gente spesso sul blasé, che si considerava destinata per diritto di nascita a regnare sulla moltitudine plebea del popolo italiano. Congenita arroganza, di cui sopravvivono tracce nelle pretese dei discendenti della genia, sopravvissuti al tempo e alla stessa impudente volagerie degli antenati. Che comunque andavano in giro per il mondo e vi frequentavano selettivamente i pari grado.

Usciti dalla scena lorsignori, venne il turno dei “professionisti dell’associazionismo”, inaugurato nel 1992 dal tipografo romano Luigi Abete. Personaggi in carriera – da Emma Marcegaglia a Montezemolo, all’ultimo Vincenzo Boccia – cresciuti nei corridoi del palazzone nero di viale dell’Astronomia all’Eur e ormai immersi nel politicismo collusivo del tempo. Tanto da coltivare frequentazioni (e non solo) con la fauna di partito prevalentemente romana. Conclusi i loro trade-off, anche i carrieristi di Confindustria hanno sgombrato la scena.

Ora assistiamo con Bonomi all’infuriare di un tardivo vento del nord, che reca con sé gli umori risentiti di un pezzo di mondo dell’impresa sinora tenuto ai margini: i padroncini. Ed è quasi scontato che il nuovo capo venga dalla Padania profonda e dalle sue Confindustrie locali, incubatrici di un sentire consolidatosi ormai da tempo. Innanzitutto i nuovi rampanti frequentano sempre e solo se stessi. Situazione che produce gravi distorsioni nelle loro capacità visive. Da qui la sensazione di solitudine in un paese sostanzialmente ostile (appunto, “antindustriale”), lenita con le conferme tratte dalle frequentazioni circoscritte ai loro colleghi; il senso di straordinarietà in quanto portatori di una cultura pragmatica che li eleva dalla chiacchiericcio inconcludente italiota e relativa retorica (“rimbocchiamoci le maniche” ti dicono in Assolombarda, “alura föm” tra Bergamo e Brescia). Effetto compulsivo derivante è una sorta di “sindrome dell’indaffarato”, che smaschera il loro vero retroterra culturale: non imprenditoriale bensì artigianale. La bottega in cui il maestro artigiano non fa fare ma esegue in prima persona.

Questi presunti uomini del fare oggi avanzano la pretesa di sedersi a capotavola nella discussione sull’uscita dalla crisi del Paese. Di certo non rendendosi conto che il primo punto di crisi sono proprio loro, gestori fallimentari della decadenza industriale. E i dati della catastrofe, che va addebitata all’imprenditoria nazionale, derivano proprio dalle analisi fornite da Confindustria centrale. A partire dalla ricerca (datata 1999) sul nanismo d’impresa, che svelava le magagne di un familismo industriale che blocca lo sviluppo per incapacità a governarlo. Quel padronato in serrata degli investimenti almeno dalla metà degli anni Settanta (la quota del capitale sul totale del valore aggiunto, per quanto riguarda il settore manifatturiero, scende dal 38% del 1960 al 25% del 1975). Con conseguente blocco nel rinnovamento delle merceologie; circoscritte alle canoniche “Tre Effe” (faschion, food, furniture: moda, alimentare, arredamento). Difatti – stando alle stime del Mise – la posizione italiana dell’ultimo decennio nel ranking mondiale è passata dall’ottava casella del 2006 (3,5%) alla decima del 2015 (2,8%). Il Centro Studi di Confindustria aggiunge al quadro deprimente un’ulteriore pennellata, osservando come sia almeno dal 2000 che si allarga la forbice tra l’Italia manifatturiera e il resto del Mondo; un settore che si è espanso complessivamente del 36,1%, mentre qui da noi si restringeva del 25,5%.

Non sembra proprio ci siano gli estremi per atteggiarsi a fenomeni, egregio Bonomi.

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Fonte: ilfattoquotidiano.it