“Quarantena attiva”, la richiesta delle aziende per superare la carenza di braccianti per la vendemmia: “Chi arriva dall’Est Europa lavori separato dagli altri”

In alcune aree d’Italia la vendemmia è entrata già nel vivo da un paio di settimane, eppure si è ancora costretti a fare i conti con la mancanza di manodopera. Perché ad oggi i lavoratori stranieri che arrivano nelle aziende sono quasi sempre costretti alla quarantena prima di poter lavorare nei campi. Il problema che aveva acceso il dibattito pubblico nei mesi scorsi, fino alla sanatoria promossa dalla ministra Teresa Bellanova, torna a riproporsi. Anche perché la regolarizzazione non ha dato i risultati sperati: i numeri sono stati deludenti proprio nel settore per cui era stata pensata. E allora ecco che le aziende si trovano ancora senza braccianti. Tutto questo mentre Assoenologi, Ismea e Uiv presentano un dossier sulla vendemmia in corso che continua a far aumentare la scorta di Cantina Italia, cresciuta del 60% negli ultimi cinque anni e arrivata a 38,5 milioni di ettolitri, al netto dei 47,2 milioni di ettolitri frutto della raccolta di quest’anno.

CONFAGRICOLTURA: “MANCA CIRCA IL 30% DELLA MANODOPERA NECESSARIA” – Secondo i dati Inps, normalmente nel settore vitivinicolo tra italiani e stranieri sono impiegati stagionalmente 180mila lavoratori. “Di questi, il 40% sono stranieri, sia provenienti dall’Ue (per la stragrande maggioranza dalla Romania e, in minor percentuale, dalla Bulgaria), sia extracomunitari”, spiega a ilfattoquotidiano.it Roberto Caponi, direttore dell’area Lavoro e Welfare di Confagricoltura, sottolineando le difficoltà che in questo momento hanno proprio i braccianti comunitari che dovrebbero partecipare alle operazioni per la vendemmia. “Sono costretti alla quarantena – aggiunge – e questo può arrivare a ridurre anche del 30 per cento la manodopera”. Molte regioni hanno fatto e stanno facendo i conti con questo problema.

DALLA FRANCIACORTA ALLA TOSCANA – Tra i primi a segnalarlo il Consorzio della Franciacorta, la prima zona dove è iniziata, un mese fa, la raccolta di uve Chardonnay, Pinot nero e Pinot bianco. Fredda l’analisi: buona annata, ma mancano i lavoratori dell’Est, mentre quelli stranieri in arrivo sono costretti a un periodo di quarantena nelle strutture messe a disposizione dalle aziende. Solo in Veneto, ogni anno da Romania e Bulgaria arrivano oltre 14mila stagionali agricoli, mentre in Trentino ne sarebbero serviti circa 18mila e, dopo la quarantena imposta dal ministero della Salute ai lavoratori provenienti proprio da Romania e Bulgaria, la giunta provinciale di Trento è tornata a pubblicizzare la piattaforma aperta in accordo con l’Agenzia del Lavoro. Anche se, come segnalato dai sindacati, le aziende generalmente preferiscono non attingere da queste liste, aspettando gli stranieri che ogni anno fanno quel lavoro e con i quali nel corso del tempo, in molti, casi, si è creato un rapporto di fiducia. Ad agosto Fedagripesca Confcooperative Toscana ha stimato 5mila lavoratori in meno. Tanti, se si pensa solo alla provincia di Siena con, tra gli altri, i 3.600 ettari di vigneto di Brunello di Montalcino e i 3.500 del Consorzio del Chianti colli Senesi.

LE SOLUZIONI PROPOSTE – Sono diverse le soluzioni proposte negli ultimi mesi da Confagricoltura, Coldiretti e Cia (Confederazione degli agricoltori italiani). Ricordando che “l’Italia si conferma primo produttore mondiale in termini di volumi” il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, ha sottolineato che “sul fronte export sono necessarie rapidità decisionale e risorse adeguate per migliorare le performance del settore, fortemente penalizzato dal lockdown e dalla pandemia”. Giansanti si è espresso anche sulla manodopera: “Le aziende ribadiscono la necessità di misure adeguate per sopperire alla mancanza di personale per la vendemmia in corso”. Soluzioni su cui è dal 20 maggio scorso che si attendono risposte da parte del Comitato tecnico scientifico. In primis sulla possibilità di una quarantena attiva.

LA QUARANTENA ATTIVA E PERMESSI DI SOGGIORNO – “Si tratterebbe – spiega Caponi a ilfattoquotidiano.it – di far svolgere agli stranieri l’attività anche durante il periodo di quarantena, trattandosi di un lavoro che si svolge in aperta campagna, a condizione che lavorino separati dagli altri dipendenti e che non lascino l’azienda per 15 giorni”. Un isolamento fiduciario, ma non a braccia conserte. “In Germania l’hanno fatto – aggiunge – mentre in Italia il governo si è riservato di farci sapere. Nel frattempo le aziende stanno incontrando molti problemi, perché i rumeni non vengono in Italia per stare 15 giorni fermi, con il rischio che il prodotto diventi inservibile”. In una bozza di protocollo, Confagricoltura aveva previsto che gli stagionali dormissero in alloggi separati. Una sistemazione che non tutte le aziende possono permettersi. “Eppure diverse realtà hanno già manifestato la propria disponibilità” spiega Caponi. Nelle scorse settimane la cooperativa Trentino ha proposto una ‘quarantena attiva’ in attesa dell’esito del tampone, fatto eseguire entro 24 ore dall’arrivo di questi lavoratori: l’idea è quella di lavorare in gruppi di massimo quattro persone, le stesse con cui dormire e condividere il momento del pasto. L’obiettivo è quello di facilitare un eventuale tracciamento in caso di positività al virus.
In parallelo poi c’è il caos dei permessi di soggiorno, tra quelli stagionali agricoli scaduti il 31 agosto e quelli che scadono il 31 dicembre 2020. “Quelli scaduti – spiega Caponi – possono essere prorogati solo attraverso il decreto Flussi”.

IL CONTRATTO DI PRESTAZIONE – Per Confagricoltura un altro strumento potrebbe essere una modifica del contratto di prestazione occasionale, che dal 2017 sostituisce i voucher. Emblematica la reazione di Cgil, Cisl e Uil, agli inizi di agosto, davanti alla richiesta inviata dalla giunta provinciale di Trento al Ministero del Lavoro, di poter far lavorare da subito i braccianti attesi. “Sembra che qui si stiano cercando solo delle scorciatoie – il commento dei sindacati – per avere subito i lavoratori stranieri e far lavorare gli italiani, per lo più disoccupati, cassintegrati e giovani studenti, solo con uno strumento iniquo qual è il voucher”. Il tema dei voucher scatena vecchie (e nuove) paure nel nostro Paese. E dire che si tratta di uno strumento introdotto per la prima volta con una circolare Inps ad hoc per la vendemmia. Era agosto 2008 e l’obiettivo era quello di ridurre la burocrazia nei vigneti e offrire un’integrazione del reddito a studenti e pensionati. Poi è stato allargato a diversi settori. Nel marzo 2017 il governo Gentiloni li ha aboliti per dribblare i referendum proposti dalla Cgil.

“Così com’è – spiega il direttore dell’area Lavoro e Welfare di Confagricoltura – il voucher è utilizzabile solo dalle piccolissime aziende, fino a 5 dipendenti, ed entro il tetto di 5mila euro l’anno. E poi possono accedervi solo studenti fino a 25 anni, pensionati, disoccupati e percettori di integrazioni al reddito. E poi ci sono una serie di nodi burocratici che lo rendono poco conveniente”. Insomma, da un lato il contratto di prestazione occasionale mostra i suoi limiti, soprattutto in piena emergenza e quando servirebbe velocizzare alcuni passaggi. Dall’altro, però, si vuole limitare uno strumento che potrebbe consentire di aggirare le norme sul lavoro subordinato. “Non vedo rischi in questo momento – dice Caponi – perché ciò che abbiamo chiesto è di allentare i vincoli solo in questa fase emergenziale”.

IN ATTESA DELLE RISPOSTE – Al momento, però, pare abbiano vinto i timori. Di fatto si attendono da mesi le risposte del Comitato tecnico scientifico. Sempre più urgenti alla luce degli effetti che la sanatoria voluta dalla ministra Bellanova non ha portato. Al 31 luglio 2020 sono state 148.594 le domande di regolarizzazione degli immigrati presentate per chiedere il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro e, dato ancora più significativo, oltre 128mila riguardano rapporti di lavoro domestico, mentre solo 19.875 agricoltura e pesca. Sono dati che il Paese non può permettersi, nonostante l’Italia continui a essere il principale produttore mondiale di vino, anche con la crisi e l’emergenza sanitaria. I dati del report di Assoenologi, Ismea e Unione Italiana Vini (Uiv) stimano infatti una produzione di 47,2 milioni di ettolitri, in calo dell’1% rispetto allo scorso anno, seguita da quelle di Francia e Spagna con 45 e 42 milioni di ettolitri. È inferiore a quello subìto dai principali competitor il calo dell’export, che arriva però dopo 20 anni di crescita (-4% nei primi 5 mesi dell’anno).

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Fonte: ilfattoquotidiano.it