Salario minimo, tra i buoni propositi di Ue e governo c’è la storia di Mario: 3,5 euro all’ora netti. Ma adesso il tribunale gli dà ragione

Quando scopre che il governo pensa a un salario minimo di 9 euro lordi l’ora per tutti i lavoratori, Mario non ci crede: “Ma figuriamoci, sa quanto prendo io? Poco più di 5 euro lordi. Per non parlare di quanto prendevo da quelli a cui ho fatto causa”. Vive a Torino e ha meno di 40 anni, Mario, nome di fantasia che diventa d’obbligo quando porti il capo in tribunale perché ti paga una miseria. “Prima superavo i 1300 euro al mese”. Poi, come capita nel settore della vigilanza privata, cambia l’appalto e il datore. Mario passa al contratto collettivo “multiservizi”, appena sopra i mille euro. Stesso lavoro e stessa committenza, una banca sulla quale vigilare. Tutto resta uguale ma il contratto cambia di nuovo, è la volta del “servizi fiduciari”.

In pochi anni Mario si ritrova a guadagnare 715 euro lordi al mese, all’ora non sono più di 3,50 euro netti. “Non puoi avere una vita normale con quei soldi. Rinunci a tutto: figli, famiglia. Perché non ti bastano nemmeno per mangiare e pagare l’affitto”, spiega. Così nel 2016 si rivolge a un avvocato e imbocca quella che ad oggi resta l’unica via italiana al salario minimo, quella che passa dai tribunali. Al netto del rinnovato impegno del governo Conte che ha inserito il salario minimo legale tra i progetti legati al Recovery Fund e degli auspici della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, che vorrebbe farla diventare una norma europea, a difendere i lavoratori italiani c’è solo l’articolo 36 della Costituzione: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Una sentenza storica – Il tribunale del lavoro di Milano prima e la Corte d’appello poi hanno dichiarato che quella di Mario non era una retribuzione proporzionata né sufficiente. “È intuitivo che una retribuzione oraria lorda inferiore a 5 euro non consenta di vivere una vita libera e dignitosa”, spiega l’avvocato di Mario, Fausto Raffone, citando la sentenza della Corte d’appello. “Mario si è visto riconoscere gli arretrati retributivi ricalcolati in base a un contratto collettivo più favorevole”, spiega Raffone, che ricorda come l’azienda abbia preteso un’ulteriore causa giudiziaria per la quantificazione del dovuto: “Comportamenti che incontriamo sempre più spesso”. La parola fine la metterà la Cassazione, non prima del 2022.

Quando si parla di salario minimo, storie come quella di Mario sono il cerchio rosso sulla mappa, quello con su scritto “voi siete qui”. È ai tanti Mario che bisogna tornare quando ragioniamo delle parole di Giuseppe Conte o di Ursula Von dei Leyen. “Tutti devono avere accesso ai salari minimi o attraverso la contrattazione collettiva o con salari mini legali”, ha detto la presidente della Commissione europea nel recente discorso sullo Stato dell’Unione. Primo, con buona pace della Von der Leyen l’Unione non ha competenze in materia di retribuzioni. Lo dice il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Secondo, lasciare la definizione dei salari minimi alla contrattazione tra le parti sociali o fissarli per legge non è la stessa cosa. Anzi, si tratta dei termini di un dibattito decennale che in Italia non si è mai risolto, e che condanna i lavoratori come Mario a cercare giustizia nei tribunali con alterne fortune.

Con i contratti collettivi nazionali che coprono più dell’80% dei rapporti di lavoro subordinato, nel nostro Paese il salario minimo legale non è mai diventato una priorità. Da sempre contrari, i sindacati paventano una competizione al ribasso tra i nuovi minimi fissati per legge e le retribuzioni negoziate attraverso la contrattazione. Insomma, salari bassi ancora più bassi. Un pericolo decisamente sovrastimato, secondo Emanuele Menegatti, ordinario di Diritto del Lavoro a Bologna. Che dati alla mano mette in dubbio lo stato di salute della contrattazione collettiva in Italia, e soprattutto la sua capacità di difendere i salari: “Dal 9,6% degli anni pre-crisi, i lavoratori poveri sono diventati nel 2017 il 12,3%, abbondantemente sopra la media Ue (9,6%)”, spiega. Ma c’è di più. Complice una riforma sulla rappresentanza sindacale che non si è mai fatta, accanto alle sigle più rappresentative ne sono nate altre, e con loro innumerevoli contratti collettivi, compresi i cosiddetti contratti “pirata”.

Per un’ottantina di settori produttivi i contratti collettivi sono ormai più di 800: un primato tutto italiano. Dice Menegatti: “In alcuni settori, come il tessile, i salari previsti da questi contratti sono inferiori anche di un terzo rispetto a quelli firmati dai sindacati più rappresentativi”. E aggiunge: “Il salario minimo legale ridurrebbe di molto i margini della concorrenza al ribasso di certi contratti”. Ma non ci sono solo i pirati. Ancora una volta basta tornare alla storia di Mario. Il contratto che parte da 715 euro lordi al mese è un contratto collettivo nazionale partorito e firmato da Cgil, Cisl e Uil. È per questo che la sentenza del Tribunale di Milano che dà ragione a Mario ha fatto rumore. “Se un contratto collettivo firmato dai confederali prevede che un lavoratore possa guadagnare poco più di 3 euro netti l’ora e vivere dignitosamente in una grande città del Nord, la misura è colma”, ammette l’avvocato Raffone.

Alla ciliegina sulla torta ci pensa il Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, che nell’ultimo report sui contratti vigenti ne dichiara scaduto il 61%. Mai così tanti, con milioni di lavoratori che negli anni hanno perso fino al 20% del loro potere di acquisto. Tempi duri, insomma, tanto da sembrare maturi per il salario minimo legale. E infatti il governo di Conte lo infila nel programma del Recovery Fund, un impegno di fronte all’Europa. “Dici che lo fanno per davvero?”, domanda Mario. Tocca ammettere che la strada è quantomeno in salita. Faro del governo è il disegno di legge del M5s depositato in Senato nel 2019. Ce n’è uno simile targato Pd, ma quello pentastellato porta la firma dell’attuale ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo. Il testo prevede un salario minimo di 9 euro lordi l’ora “oppure quanto previsto dal contratto collettivo nazionale del settore, stipulato dalle organizzazioni più rappresentative”.

Ancora una volta le due opzioni non si equivalgono. Per dire che qualcuno è più rappresentativo di altri, chiarisce il professor Menegatti, “serve un intervento legislativo che modifichi la Costituzione, una strada lunga e incerta”. Ma anche quella che stabilisce i 9 euro lordi l’ora non è da meno. “Fissare il livello del minimo salariale è molto complicato, 9 euro non va bene”, dice a ilfattoquotidiano.it l’economista Pietro Garibaldi, che suggerisce piuttosto di legare la definizione “al valore mediano dei salari e con le dovute differenze territoriali”. Il rischio è elevato. Livelli troppo bassi sarebbero inutili a sostenere il reddito. Livelli troppo alti potrebbero influire sull’occupazione e sulle scelte di molte imprese. Non a caso i Paesi europei hanno escluso competenze dell’Unione in materia salariale.

“Si tratta di uno strumento dalle enormi implicazioni economiche e sociali, e va usato con cautela. Per questo la riforma non può certo considerarsi dietro l’angolo”, avverte Menegatti. “Ci vuole uno studio econometrico, un’ampia indagine che includa imprese, sindacati e lavoratori”. Il presidente del Cnel, Tiziano Treu, lo ha più volte trasformato in un appello: “Serve una specifica commissione tripartita e il dialogo sociale rimanga la via maestra”. Niente automatismi, dunque, come previsto dal ddl dei Cinque Stelle che affida l’incremento annuale all’indice dei prezzi al consumo. E allora tocca convincere sindacati e imprese, e renderli protagonisti.

“In nessun Paese con un sistema efficiente di salario minimo questo si è realizzato senza le parti sociali”, spiega Menegatti. C’è da augurarsi che il governo abbia fortuna, e tempo sufficiente. Perché se vicende come quella di Mario finiscono nei libri e fanno storia, di certo non fanno scuola. Anzi, in settori fortemente caratterizzati dall’esternalizzazzione dei servizi, dove appalti e datori cambiano spesso, anche chi ha vinto in tribunale può tornare al punto di partenza. Nell’attesa che le cose cambino, Mario ha cambiato ancora datore di lavoro, ma per avere l’impiego ha dovuto accettare lo stesso contratto che i giudici di Milano hanno dichiarato incompatibile con la Costituzione: “Ormai lo applicano tutti, prendere o lasciare”.

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Fonte: ilfattoquotidiano.it