di Franco Scarpelli*
Come è noto, il Governo Conte ha prorogato il blocco dei licenziamenti per motivi economici, anche se in modo flessibile da impresa a impresa (anche se sul punto c’è molta discussione).
L’art. 14 del decreto n. 104 di agosto mette però a disposizione delle imprese una misura alternativa per gestire da subito eventuali situazioni di eccedenza o la necessità di ridurre il costo del lavoro. Si tratta di una soluzione non traumatica e concordata sia con le organizzazioni sindacali sia con i singoli lavoratori, ai quali verrà offerto un incentivo in cambio dell’accettazione della fine del rapporto di lavoro.
Lo Stato, in tal caso, garantisce che il lavoratore possa comunque ricevere l’indennità di disoccupazione (oggi Naspi), anche in quei casi nei quali normalmente non sarebbe dovuta (come accade in generale per le dimissioni e le risoluzioni consensuali dei rapporti di lavoro).
Come funzionano gli accordi in uscita?
Secondo la legge, il datore di lavoro deve trovare un accordo con le associazioni sindacali “comparativamente più rappresentative” a livello nazionale: quindi non bastano le rappresentanze interne (Rsa o Rsu), e i sindacati coinvolti devono essere quelli firmatari dei contratti collettivi di settore più importanti. Per intenderci, l’impresa che si cercasse un sindacato ‘minore’ per avere un interlocutore più malleabile rischierebbe di vedere poi impugnata la risoluzione del rapporto (anche da parte del lavoratore che vi abbia aderito), perché il divieto in questo caso non poteva essere derogato. E il lavoratore, se non c’è un vero e proprio licenziamento, rischierebbe di vedersi negare la Naspi.
Trovato l’accordo, si può procedere ad aprire la procedura dei licenziamenti collettivi (legge 223/1991), quella dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (art. 7 legge 604/1966), o procedere direttamente al licenziamento individuale per i lavoratori che hanno un contratto a tutele crescenti (cioè quelli assunti dopo il 7 marzo 2015). Tutto ciò, però, avverrà soltanto nei confronti dei lavoratori che aderiscono al percorso di uscita concordato nell’accordo collettivo: dunque nessun licenziamento per chi non lo accetti espressamente.
La risoluzione del rapporto potrà anche avvenire non con un licenziamento ma in modo consensuale. Nella pratica, tale soluzione viene adottata per evitare di pagare i costi del preavviso (che vengono semmai ‘monetizzati’ nell’incentivo offerto al lavoratore) e per accedere subito alla Naspi (che invece, nel caso di licenziamento, viene erogata solo dopo la fine del preavviso, anche se ne viene pagata l’indennità sostitutiva).
L’accordo coi sindacati disciplinerà la quantificazione dell’incentivo economico, che in genere viene articolato secondo l’anzianità, il momento di uscita, o altri criteri. In questi casi, va detto, difficilmente ci sono spazi per ulteriori trattative personali del lavoratore.
Le somme erogate a titolo di incentivo sono da tassare, anche se col regime più favorevole della tassazione separata, mentre non sono dovuti i contributi previdenziali. Attenzione: tutte le volte che un lavoratore percepisce delle somme in tassazione separata (come il Tfr) deve sapere che l’Agenzia delle Entrate verificherà poi che l’aliquota applicata dal datore di lavoro (sulla base dei dati in suo possesso) sia quella corretta, tenendo conto della posizione fiscale complessiva del lavoratore (potendone derivare un conguaglio, a debito o anche a credito, a seconda dei casi). La relativa comunicazione può arrivare, in genere, anche dopo qualche anno al lavoratore che sarà dunque tenuto all’eventuale conguaglio.
Nulla impedisce che l’accordo sindacale preveda altri valori indiretti, ad esempio il pagamento di un percorso di outplacement, che anzi, se gestito da imprese qualificate del settore, è un ottimo strumento di sostegno alla ricollocazione sul mercato del lavoro.
Il contenuto dell’accordo è importante anche per altre questioni che possono porsi. Vediamone almeno un paio.
Il lavoratore ha diritto a risolvere il rapporto e percepire l’incentivo, anche se il datore di lavoro non vuole perché ritiene di avere ancora bisogno della sua prestazione?
Qui rileva la qualificazione giuridica di tali accordi: se li consideriamo, come è possibile, quale “offerta al pubblico” secondo il diritto civile, allora chi vi aderisce potrebbe in effetti maturare un diritto alla risoluzione. Se però, come spesso accade, lo stesso accordo prevede che il datore si riservi di non accettare l’adesione dei lavoratori ritenuti indispensabili, quel diritto non sorgerà.
Un tema molto delicato nasce dal fatto che, generalmente, l’impresa chiede che in occasione dell’accordo sulla risoluzione del rapporto di lavoro sia stipulata anche una “transazione generale” in una sede cosiddetta “protetta” (nel caso sarà probabilmente una conciliazione in sede sindacale), con rinuncia del lavoratore ad ogni possibile pretesa su quanto è accaduto nel corso del lavoro (ad esempio, il pagamento di ore di lavoro straordinario, il risarcimento di danni da dequalificazione professionale, di eventuali danni alla salute, ecc.).
Il lavoratore è obbligato a firmare la transazione? Ancora una volta dipende dall’accordo collettivo: se questo nulla prevede in tema, o prevede una clausola del tutto generica, ritengo che il lavoratore abbia diritto di rifiutarsi mantenendo il diritto alla risoluzione incentivata. Nella pratica, però, avverrà che anche il datore si rifiuterà a quel punto di fare l’accordo e il lavoratore dovrà valutare, con un legale, se vi sia la possibilità di proporre una causa. Nel frattempo, ovviamente, il rapporto di lavoro rimarrà attivo.
Ci si augura che, sul punto, gli accordi collettivi stabiliscano i confini delle eventuali rinunce, superando la discutibile prassi delle transazioni “tombali” ed escludendo dalle rinunce almeno i diritti che riguardano la salute e altri beni della persona.
In ogni caso, di fronte alla prospettiva della transazione, se inevitabile per uscire dall’azienda, il lavoratore che nutra qualche dubbio sulla regolarità di gestione del rapporto di lavoro farà bene a rivolgersi ad un professionista, per valutare se lo scambio tra incentivo e rinunce sia davvero conveniente.
Un’altra verifica da fare, prima di firmare, è sul versamento regolare dei contributi previdenziali: sapendo che se ci sono buchi negli ultimi cinque anni la transazione non è d’ostacolo al recupero (che si potrà ottenere chiedendo all’Inps di attivarsi), ma se la mancata contribuzione è precedente, la firma dell’accordo può far perdere il diritto al risarcimento dei danni recati alla posizione pensionistica.
Un’ultima nota: la norma in esame sembra anche voler dire che nel caso degli accordi in uscita il lavoratore ha diritto di ottenere la Naspi anche se non sia titolare dei normali requisiti soggettivi (minimo contributivo e 30 giorni di lavoro effettivo negli ultimi 12 mesi). Se così è, avrà diritto alla Naspi anche il lavoratore che, magari perché assunto poco prima dell’insorgere della pandemia e poi collocato a lungo in cassa integrazione, non possieda il requisito delle 30 giornate. La durata del trattamento, invece, rimane affidata al calcolo dei periodi contributivi accumulati negli ultimi quattro anni. Sul tema, però, sarà necessario vedere cosa dirà l’attesa circolare Inps sul decreto 104.
* Professore di Diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca, è avvocato del lavoro e tra i fondatori del network di studi Legalilavoro, rete nazionale di studi legali che assistono lavoratrici, lavoratori e organizzazioni sindacali (www.legalilavoro.it).
L’articolo Blocco dei licenziamenti, quel che c’è da sapere sugli accordi ‘in uscita’ alternativi proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fonte: ilfattoquotidiano.it