Il tasso di occupazione crollato di nuovo ai minimi dal 2017: 48,6%. I 312mila posti di lavoro persi in un anno, pari al 70% di quelli scomparsi – nonostante il blocco dei licenziamenti – a causa della pandemia. E, in parallelo, il boom dell’inattività femminile che va a braccetto con il calo del numero delle disoccupate: segno che tantissime, dopo aver perso il posto a causa della pandemia, hanno rinunciato a cercarne un altro. L’anno del Covid abbia riportato indietro le lancette dell’orologio, allontanando ancora una volta l’obiettivo della parità di genere sul mercato del lavoro. Il rischio era noto, tanto che lo scorso aprile il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres aveva avvertito: “Il Covid può cancellare i progressi fatti nell’eguaglianza di genere e nei diritti delle donne”. Le misure anti crisi non sono state sufficienti per evitarlo. Il fenomeno è globale, tanto che il mondo accademico gli ha già dato un nome: “She-cession“. Tradotto: una recessione che colpisce le donne più degli uomini.
Più presenti nei settori più colpiti – Per capire da dove si ripartirà, quando l’emergenza sarà superata e in vista dell’arrivo dei fondi del Next generation Eu, bisogna partire dagli ultimi dati Istat. Nel solo mese di dicembre 2020 su 101mila persone che hanno perso il lavoro – in gran parte precari i cui contratti non sono stati rinnovati – 99mila erano donne. Che hanno pagato il fatto di essere più presenti degli uomini in settori come il turismo e il commercio e in generale tutti i servizi, colpiti duramente dalle restrizioni introdotte in autunno per contrastare la seconda ondata di contagi. E di essere più spesso titolari di rapporti di lavoro a termine e part-time (anche se vorrebbero lavorare a tempo pieno), oppure autonome. Un’ulteriore fragilità è legata al fatto che il grosso dell’occupazione femminile, come rileva un’indagine della Fondazione studi consulenti del lavoro, si concentra in posizioni impiegatizie (18,2% contro il 13,7% della media Ue) e di servizio alle vendite (24,5% contro il 22,7%). La minore presenza nelle professionali intellettuali, in quelle tecniche e in quelle dirigenziali (qui la quota si ferma al 2,3%) va di pari passo con la minore “tenuta occupazionale”.
Il peso del lavoro di cura (aumentato con le scuole chiuse) – Non solo: in Italia a pesare è stata anche la chiusura a singhiozzo delle scuole. Perché il lavoro di cura, in media, resta pesantemente concentrato sulle spalle delle donne. Nonostante anni di promesse sullo sviluppo di una rete efficiente di servizi pubblici, a partire dagli asili nido. Non è un caso se le madri anche a 15 anni dalla nascita di un figlio continuano ad avere salari molto più bassi rispetto a quelli delle colleghe senza bambini. E se, stando all’ultimo Global gender gap report del World economic forum, il reddito annuo da lavoro delle donne in Italia è in media pari a solo il 57% di quello degli uomini.
Si allargano i divari. E l’Italia si allontana dalla media Ue – Il risultato lo spiega il rapporto congiunto di Istat, ministero del Lavoro, Inps e Inail sul mercato del lavoro nel 2020: “La pandemia ha avuto l’effetto di acuire alcuni dei divari preesistenti nel mercato del lavoro, primo tra tutti quello di genere: il gap sul tasso di occupazione tra donne e uomini passa da 17,8 punti a 18,3 in favore di questi ultimi”. La percentuale di occupate sul totale delle donne in età da lavoro, che nel 2019 aveva per la prima volta faticosamente superato la soglia del 50%, è nuovamente crollata sotto il 49%. Allontanandoci ancora dalla media Ue, che è vicina al 67%. Sempre secondo la Fondazione consulenti del lavoro, nel periodo aprile-settembre 2020 l’Italia ha registrato una perdita di lavoratrici doppia rispetto alla media europea. Dopo la Spagna, il nostro Paese è quello che segna la contrazione più elevata nell’occupazione femminile. Non è “solo” questione di parità. Le famiglie con figli in cui entra un solo reddito, quello dell’uomo, sono state le più penalizzate dalla crisi pandemica e le più a rischio di precipitare sotto la soglia di povertà. “Per i bambini la miglior protezione dalla povertà è avere una mamma che lavora”, come ha spiegato a ilfattoquotidiano.it la sociologa Chiara Saraceno.
Chi ha perso il lavoro finisce tra gli inattivi -L’altra faccia della medaglia, mentre le occupate calavano, è stato il calo delle disoccupate: erano poco più di 1 milione a dicembre 2020 contro le 1,18 milioni di un anno prima. Un’illusione ottica dovuta al fatto che le difficoltà legate al lockdown ma anche ai carichi familiari, con i figli piccoli a casa in seguito alla chiusura delle scuole, hanno reso “difficile se non impossibile” – stando al rapporto Istat-Ministero del Lavoro – la ricerca di un impiego. Così queste donne non sono nemmeno entrate nella classifica ufficiale dei disoccupati, persone che stando alla definizione ufficiale devono aver cercato attivamente lavoro nell’ultimo mese ed essere pronti a iniziarne uno entro due settimane. Sono passate direttamente nelle file degli inattivi: forze di lavoro potenziali che non hanno, nei fatti, la possibilità di attivarsi. A perderci è tutto il Paese: secondo un report di PwC di alcuni anni fa, se il tasso di occupazione femminile in Italia salisse al livello svedese (vicino all’80%) il prodotto interno lordo aumenterebbe di circa 500 miliardi di euro. Basti pensare che nel 2020 il pil si è fermato a 1.572 miliardi.
L’articolo Precarie e occupate nei settori più danneggiati dalla pandemia: perché la recessione da Covid ha colpito soprattutto le donne proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fonte: ilfattoquotidiano.it