Stipendi italiani fermi da 10 anni: (almeno) 3 soluzioni possibili per aumentarli

Salari e stipendi fermi da 10 anni e al momento non sembrano esserci prospettive circa un loro adeguamento al costo della vita, con un’inflazione che ormai raggiunge il 7%. Ad evidenziarlo è un editoriale a firma del Prof. Michele Faioli, Professore associato di diritto del lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro, pubblicato sul quotidiano Avvenire in edicola oggi, nel quale si leggono anche quali sono le possibili soluzioni da adottare.

“Oggi, da più parti si segnala che la paga media lorda di un lavoratore a tempo pieno è pressoché uguale da dieci anni. Inoltre, la dinamica salariale italiana pare non seguire quella del prodotto né nelle fasi di crisi né in quelle di ripresa. Si dice che in Italia c’è una bassa flessibilità della parte salariale rispetto alla situazione economica generale. La crisi energetica di queste ultime settimane moltiplica questo effetto di rigidità perché, indirettamente, incide sul costo della vita, con il quale, nella quotidianità, ci si confronta duramente in tante famiglie, muovendo da un salario spesso inadeguato”.

Cosa si può fare?” si domanda il Professor Faioli, che da anni segue le politiche del lavoro a supporto delle Istituzioni come il CNEL. “icuramente favorire la diffusione del salario di produttività, il salario di “secondo livello” che si aggiunge a quello nazionale ma al di fuori di alcune aree del Paese “triangolo industriale Torino-Rimini-Treviso” “e settori produttivi (meccanica, alimentari, chimica, energia, tessile)”, questo sistema di retribuzione non è ben sviluppato. Quindi occorre trovare altre soluzioni.

Ci sono infatti – prosegue – “aree geografiche e settori dove i salari, non solo sono fermi a dieci anni fa, ma seguono una tendenza anomala che è quella del dumping rispetto ai Ccnl sottoscritti dalle parti più rappresentative. È questo il momento per porsi in modo costruttivo anche di fronte a questa sfida ulteriore, dovuta alla crisi energetica e alla guerra. Per avere dinamiche retributive più in linea con il costo della vita, dobbiamo superare l’insufficiente articolazione tra livelli contrattuali, che ormai da troppo tempo e in molti settori va a scapito del livello decentrato. Si deve fare una convinta azione di chiarimento sull’eventuale non auspicabile intervento del legislatore nella materia del salario minimo. Bisognerebbe infine liberare la struttura retributiva dal peso degli automatismi (come ad esempio gli scatti di anzianità, ndr), collegando lo sviluppo alle componenti retributive che misurano la produttività o che sono rapportate ai risultati o all’innovazione organizzativa”. Insomma, dice il giuslavorista, se è vero che occorre potenziare il ruolo del contratto nazionale nell’adeguare i salari al costo della vita, dall’altra il contratto nazionale dovrebbe essere in grado di ‘cedere’ una parte dei costi alla contrattazione di II livello e rimetterli in discussione come elementi economici variabili, legati alla produttività. Senza trascurare l’idea di un intervento governativo sul salario minimo.

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