Introdotti per la prima volta nel 2003, i voucher sono stati aboliti nel 2017 dopo un susseguirsi di modifiche. In DDL Bilancio il Governo Meloni li ha reinseriti per retribuire i lavoratori del settore turistico, dell’agricoltura, dei servizi alla persona e del lavoro domestico, non senza polemiche delle parti sociali.
Polemiche che riguardano sia la perdita delle tutele e dei diritti normalmente riconosciuti ai dipendenti verso cui incapperebbero i lavoratori pagati con i voucher, sia la paga oraria, di poco superiore a quella che spettava 20 anni fa. Vediamo come sono cambiati i voucher dal 2003 a oggi.
I voucher, detti anche buoni lavoro, vennero introdotti per la prima volta con il Decreto Legislativo 276/2003, la famosa riforma Biagi varata durante il secondo Governo Berlusconi (2001-2006).
L’obiettivo dichiarato era quello di disciplinare quei rapporti di lavoro caratterizzati da una natura prettamente occasionale (attività agricola, commercio, giardinaggio e pulizia, manifestazioni sportive, servizi, turismo) così da sottrarre queste attività al mercato del lavoro nero e collegarle invece al sistema previdenziale e assicurativo.
A beneficiare maggiormente dei voucher erano studenti, casalinghe, pensionati e disoccupati, che in questo modo avrebbero usufruito di una forma di regolamentazione occupazionale per un massimo di 30 giorni all’anno, con un tetto limite di 3.000 euro. Il valore dei buoni lavoro, sempre secondo la riforma Biagi, corrispondeva a 7,50 euro.
Fu il secondo Governo Prodi, nel 2008, a innalzare il valore dei buoni a 10 euro e il limite di utilizzo a 5.000 euro senza la previsione di vincoli temporali e imposizioni fiscali. Nel 2009, infine, il terzo Governo Berlusconi ampliò i settori e le attività di applicazione: tutti i datori di lavoro e le imprese presenti nel settore dei commercio, del turismo e dei servizi avrebbero potuto usare i buoni lavoro per retribuire i soggetti impiegati nei lavori occasionali.
Le modifiche più sostanziali si hanno nel 2012, con la Legge Fornero: si è passati dai 5.000 ai 2.000 euro per lavoratore da parte del singolo committente (con l’eccezione del settore agricolo) e in più viene modificata la quantificazione del lavoro svolto, che è passata da una negoziazione rispetto al valore di mercato a un riferimento all’orario di lavoro.
Nel 2013 il Governo Letta ha eliminato la dicitura “lavori meramente occasionali” e nel 2015, con il Jobs Act varato dall’Esecutivo Renzi, è stato nuovamente innalzato il tetto massimo del valore annuale a 7.000 euro.
Dopo un impasse nei primi anni di vita, dal 2011 i voucher hanno conosciuto un boom, sfociato poi in un vero e proprio abuso nel 2015, come denunciato da diversi studi e organi di stampa. In pratica, i datori di lavoro facevano ricorso ai voucher anche per attività che non prevedono l’utilizzo di questa forma di pagamento.
Nel maggio 2017, la Cgil avviò quindi una raccolta firme per indire un referendum abrogativo dello strumento, ritenuto un espediente rispetto alle regolari forme di retribuzione dei lavoratori.
Proprio per evitare il referendum, la conversione in legge da parte del Senato del DL 17 marzo 2017, n. 25 rese operativa l’abolizione dei voucher con effetto dal 1° gennaio 2018.
Ed eccoci a oggi. Come anticipato a inizio articolo, il Governo Meloni ha reintrodotto il metodo di retribuzione tramite voucher con l’obiettivo di incentivare il reperimento della manodopera soprattutto nei settori in cui questa scarseggia, come quelli dell’agricoltura e del turismo in cui prevalgono i contratti stagionali.
I voucher potranno essere utilizzabili a determinate condizioni e per un importo complessivamente non superiore a 10 mila euro di reddito.
La misura minima oraria del compenso è pari a 9 euro netti: solo 1,5 euro in più rispetto al 2003, quando vennero istituiti per la prima volta e l’euro era da poco entrato in vigore, e addirittura 1 euro in meno rispetto al 2008, quando col Governo Prodi raggiunsero i 10 euro.