Aumento degli stipendi per adeguarli all’inflazione, per evitare un effetto controproducente bisognerebbe recuperare il fiscal drag.
Quanto l’inflazione cresce troppo velocemente (in gergo si direbbe che galoppa), aumentando i salari si rischia di danneggiare il lavoratore invece che aiutarlo: per via di un aumento di stipendio, anche minimo, si potrebbe infatti sconfinare lo scaglione di imposta superiore ed essere quindi costretti a pagare più tasse. In questo caso l’aumento non solo è impercettibile, ma risulta addirittura inconveniente.
È quello che sta accadendo in questo periodo in cui l’inflazione è in forte crescita. La soluzione, pensata da CGIL e dal suo leader Landini e ripresa da Repubblica nell’edizione di martedì 10 gennaio, sarebbe quella di recuperare il fiscal drag, ossia il drenaggio fiscale, come disposto da un vecchia norma del 1989 e aggiornata poi nel 1992.
Cos’è il fiscal drag? Si tratta di un fenomeno fiscale, appunto, per cui in presenza dell’inflazione il salario reale si svaluta, perde potere d’acquisto: puoi comprare meno cose, a parità di reddito. E anche gli eventuali aumenti applicati per far fronte all’inflazione che fanno scavallare lo scaglione Irpef alla fine vengono mangiati tutti dalle tasse, con gli interessi (come spiegato sopra).
Proprio per questo, scrive Repubblica, “la Cgil propone di rispolverare quel vecchio decreto del 1992 e andare ad indicizzare tutte le detrazioni da lavoro percepite dai dipendenti (anche pubblici) che nel 2020 – ultimo dato fiscale disponibile – valevano 26 miliardi.“
Certo, non mancherebbero gli ostacoli: recuperare il fiscal drag indicizzando al 10% le detrazioni da lavoro dipendente (a dicembre 2022 l’inflazione registrata in Italia era +11,6% rispetto al 2021) costerebbe allo Stato circa 2,6 miliardi. Una cifra cui è difficile rinunciare.