Un quarto degli italiani è a rischio povertà: su 23 milioni di occupati, circa 5 milioni e 800 mila lavoratori sono in grande difficoltà. Purtroppo non sempre basta un impiego e anche lavorando, in alcuni casi, si fatica ad arrivare a fine mese.
D’altronde, l’Italia è l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 ed il 2020: un dato emerso anche nel corso del dibattito tra la leader del PD Elly Schlein e la Premier Giorgia Meloni durante il question time alla Camera dello scorso 14 marzo.
Il fenomeno dello “working poor“ riguarda ormai una platea di lavoratori abbastanza eterogenea, anche se prevale tra i precari, gli immigrati, i lavoratori part time, il personale a servizio della gig economy, i giovani del Sud e le donne. A dirlo è uno studio commissionato l’anno scorso dall’ex ministro dell’Economia Andrea Orlando e del quale riporta i dati La Stampa.
Le cause che riconducono al fenomeno del lavoro povero sono molteplici: un orario di lavoro ridotto e spesso involontario, la mancanza di una legge sul salario minimo e i contratti pirata che puntano al ribasso.
L’economista Ocse Andrea Garnero, che ha partecipato allo studio del ministero di via Veneto, spiega: «Il lavoro povero deriva dai bassi salari, ma soprattutto dal fatto che molti dipendenti sono costretti a lavorare meno ore di quante vorrebbero. L’Italia ha il dato più alto dei Paesi Ocse di part time involontario. A questo bisogna aggiungere il precariato». E costrette a lavorare part-time sono più che altro le donne.
Lavorare poco abbassa per forza lo stipendio mensile: «il 30% dei lavoratori dipendenti guadagna meno di 12 mila euro lordi all’anno», evidenzia Elena Granaglia, docente di Economia di Roma Tre e membro del coordinamento del Forum Disuguaglianze e Diversità. A essere svalorizzate sono soprattutto le professioni che riguardano i servizi alla persona (come l’assistenza ai bambini, disabili o anziani) e quelle del comparto turistico.
Inoltre, sussiste il problema dei contratti pirata. Su mille contratti depositati ce ne sono 800 pirata: «Sempre più datori di lavoro puntano al ribasso, oltre al problema della retribuzione mensile questi contratti sono più deboli per quel che riguarda gli straordinari, la malattia, la maternità e in generale le tutele legate alla persona», spiega Michele Faioli, docente di diritto della Cattolica e consigliere del Cnel.