Aleksander

Aleksander era un ragazzo croato che viveva a Dubrovnik e il suo sogno era quello di diventare un cestista. A causa delle gravi difficoltà economiche della famiglia, Aleks fu costretto a terminare gli studi e andare a lavorare per aiutare la madre, donna delle pulizie in un ricovero per anziani, e il padre, muratore in un’impresa edile. Venne così assunto come cameriere in un ristorante italiano.

Alternava lavoro e pallacanestro, anche se a volte si sentiva stanco dopo il lavoro e quindi spesso saltava qualche allenamento. Si presentava quasi sempre agli allenamenti nel campetto del quartiere, con la divisa del ristorante in cui lavorava e con le scarpe sporche e malridotte del padre. Ogni volta che entrava in campo però, Aleksander sembrava dimenticare tutte le sfortune della sua vita e iniziava a giocare in maniera divina, come se la sua frustrazione si trasformasse in energia propulsiva. Univa classe a rabbia e aggressività e ogni partitella che veniva disputata lo vedeva nella squadra dei vincitori.

A lavoro però arrivava spesso in ritardo e già stanco, tanto che il proprietario del locale lo rimproverava di dimenticare gli ordini, non dimostrare la dovuta gentilezza ai clienti, far cadere di tanto in tanto un bicchiere e una portata. Il sabato sera, poi, quando il locale era più affollato non riusciva a portare dieci piatti insieme come gli ordinavano in cucina. Insomma, rischiava seriamente di essere licenziato.

Quando questa voce arrivò alla madre e al padre decisero di allontanarlo dalla sua squadra di basket per farlo lavorare di più e meglio. “Mamma io non riesco a vivere senza giocare a basket!” insisteva Aleksander, ma la madre sembrava non volerlo ascoltare, lo stesso vale anche per il padre che, stanco com’era la sera, aveva altro da pensare che alle “fantasie del figlio”. Dopo il lavoro, con le poche forze che aveva, andava a giocare a basket al parco sotto casa e come di consueto, si creava il capannello dei tifosi.

Ma un giorno arrivò la svolta. Aleks se lo ricorda ancora oggi. “Era un sabato mattina – racconta ai giornalisti – quando il principale mi chiede di scambiare il mio turno con un collega. Mi reco al campo più grande del mio quartiere per allenarmi. Era bel tempo e la rete era gremita di curiosi che guardavano. Fra loro c’era un talent scout del college americano del Colorado, in trasferta a Dubrovnik per un torneo internazionale. All’americano quella perfomance bastò e avanzò. Mi si avvicinò chiedendomi l’età e… bla, bla, bla. In poco meno di un anno, mi trovavo a calpestare il parquet del college più prestigioso del continente, soggiorno gratuito strutture sportive all’avanguardia e, soprattutto, una borsa di studio con cui respirare senza l’assillo del lavoro.

Dopo una serie di ottime partite, però, il giovane croato entrò in un tunnel di sconfitte e brutte prestazioni. Provava, ma non riusciva a fare un tiro, un passaggio. Forse era arrivata la nostalgia di casa e il rimorso di aver lasciato la sua famiglia. La mamma lo capì subito, era bastata quella telefonata per decidersi a comprare due biglietti d’ aereo, destinazione USA. Incontrarono emozionatissimi loro figlio. Alla vista dei genitori Aleks sembrava un’altra persona: aveva gli occhi che brillavano e sembrava rinato. Anche in campo riprese a giocare come solo lui sapeva fare.

Dopo molte vittorie e una stagione da campione, si dichiarò eleggibile al Draft NBA: una cerimonia in cui i giocatori del college vengono scelti da una squadra della massima lega statunitense di basket e entrano ufficialmente nel basket “dei grandi”. Il giovane croato venne scelto dalla franchigia dei Memphis Grizzlies e lì iniziò la carriera e finalmente riuscì a mettere da parte un bel gruzzoletto che risollevò i suoi genitori e tutta la sua famiglia dalla precaria situazione economica in cui versavano.

Davide Generosi, classe 3°B