Ero solo una giovane donna, quando la realtà nella quale avevo fino ad allora pacificamente vissuto, senza mai chiedere nulla, dubitare o oppormi ad essa, sembrava crollarmi addosso.
Tutto ebbe inizio quando, all’età di diciotto anni, una volta terminati gli studi liceali, decisi di approfondire maggiormente le mie conoscenze, frequentando la facoltà di giurisprudenza all’università. Volevo, così, inseguire il mio sogno di divenire avvocatessa che non era, però, quello di mio padre: lui sperava di potermi assumere come dipendente nell’azienda di famiglia; quella stessa azienda che, ormai da anni, era nelle mani di mio cognato, marito di Anna, mia sorella maggiore. Ciò che non tolleravo e non ero mai riuscita davvero a capire era la grande considerazione che mio padre aveva di quest’uomo, la fiducia illimitata che riponeva in lui e la sua mai dichiarata ma, di fatto, palese preferenza nei suoi confronti; una predilezione spiccata che sembrava quasi superare l’amore che provava o avrebbe dovuto provare per noi figlie e che non dovrebbe poter mai essere messo in discussione. Persino la “mia” Anna, un tempo così cara, cresciuta all’ombra di nostro padre (e ora di suo marito) tendeva sempre più a correggermi, spesso in modo brusco, tentando invano di ricondurmi su quella che lei considerava la “retta via”, ogni volta che mi ritrovavo a spaziare nei miei pensieri e a viaggiare con la mia immaginazione, col capo chino sui libri voluminosi, aperti sulla scrivania.
Riflettevo sul mio futuro lavoro, sul rapporto che avrei avuto coi miei colleghi, sulle svariate opportunità che la vita aveva in serbo in me che la guardavo con entusiasmo e viva speranza. Proprio questi erano i momenti in cui mia sorella mi rimproverava, considerando irrealizzabili le mie “fantasie” e riportandomi, severamente, alla realtà. I suoi discorsi erano monotoni, e sempre gli stessi. Matrimonio, bambini da accudire a costo di sacrificare ogni interesse e desiderio, “princìpi” ai quali eravamo state educate e che le mie ambizioni lavorative e personali contraddicevano, dal suo punto di vista di donna mansueta e “rassegnata” ad una condizione per lei giusta ed immutabile. E così, inevitabilmente, finivamo per litigare. Quando accadeva (abbastanza spesso, cioè) era mia madre ad intervenire a mio favore; lei, che aveva da sempre creduto in me e nei miei sogni e mi sosteneva, mi appoggiava, quasi a voler cercare tramite me un riscatto alla sua condizione di donna nell’ombra, era felice del mio ingresso all’università e ancor di più lo fu quando conclusi il mio percorso e decisi di frequentare un Master.
Avevo ventisette anni e, di fronte a me, si aprivano le porte del mondo del lavoro che mi vedevano inesperta e, forse, un po’ impaurita ma soprattutto ignara ancora del fatto che, per quanto demotivanti e persistenti, le liti familiari da lì a poco non sarebbero più state il mio problema più grande. La mia priorità era quella di trovare un lavoro… un compito che risultò complicato, se non quasi impossibile, malgrado la mia determinazione.
Durante il mio percorso di studi, caratterizzato da impegno e sacrificio, mai avrei potuto immaginare quali spiacevoli incontri mi aspettassero. Superiori invadenti, dalle menti pervase dai pregiudizi; commenti maschilisti da parte di colleghi e clienti, offese e incessante concorrenza, spietata concorrenza persino da parte delle colleghe, dalle quali speravo di ottenere solidarietà femminile. Il mondo del lavoro che avevo idealizzato per anni, appariva ai miei occhi per quello che era: un universo maschile, pieno di falsità, discriminazioni e competizione tossica che, in alcuni casi, degenerava al punto di diventare qualcosa di patologico, sicuramente insano.
Nonostante tutto, però, potevo contare su Marco, un mio collega, che diventò sul lavoro ciò che a casa era mia madre per me. Marco mi conosceva dai tempi del liceo, era piuttosto introverso e solitario. Scoprì dopo essermi confidata con lui la prima volta che era un ottimo ascoltatore, dotato di un forte senso di giustizia e di un innato altruismo. Era proprio lui il lume di speranza in quel periodo buio, lui che, vedendomi affranta, si era più volte battuto per me e non solo, rischiando moltissimo.
I giorni passavano, e le ore trascorse in solitudine con lo sguardo immobile sui fascicoli, nel grigio studio legale nel quale ero stata assunta divenivano, col passare del tempo, sempre più lente e deprimenti. Da quando Marco era stato licenziato, nulla sembrava più essere come prima. A causare il suo allontanamento era stata una brusca lite tra lui e il capo, nata dalle mie confidenze riguardo alle discriminazioni vissute sulla mia pelle e su quella di molte colleghe ogni giorno. Mi sentivo colpevole di quanto aveva perso, nonostante le sue dolci rassicurazioni; nello stesso tempo, ero certa di essere anche più di prima “bersaglio” per i miei superiori. Pensavo ripetutamente di abbandonare il mio sogno, che sembrava lentamente prendere le sembianze di un oscuro incubo, fino a che arrivò quel giorno in cui un’idea attraversò la mia mente, sconvolgendo i miei pensieri e, subito dopo, la mia vita. Chiamai frettolosamente Marco e lo invitai a pranzo e, una volta lì con lui, gli proposi l’audace soluzione. “- Apriamo uno studio legale tutto nostro!”. Così fu, perché accettò senza esitare.
Oggi, nella mia città, nel mondo, esiste un posto in più in cui uomini e donne camminano fianco a fianco serenamente con pari dignità e opportunità. Oggi, più che mai, sono fiera di essere una donna.
Ludovica Corsi, classe 3° C