La proposta di legge della Lega di Matteo Salvini finalizzata a differenziare i salari nei territori e nelle aziende in base al costo della vita, in realtà cela un altro obiettivo. Fare in modo che i salari già bassi, tra i 4 e i 6 euro l’ora, restino fermi a questi livelli. Ma vediamo perchè.
La Lega ha presentato al Senato un disegno di legge che consente alla contrattazione collettiva a sottoscrivere accordi territoriali e aziendali, che fissino una retribuzione accessoria, collegata al costo della vita. Insomma prendono più soldi i lavoratori di quelle aziende o territori in cui secondo l’ISTAT l’inflazione si fa più sentire. Fermo restando che il minimo retributivo nazionale resta uguale per tutti.
Ma l’inflazione non era un fenomeno di rialzo dei prezzi al consumo che si manifesta a livello nazionale? Quando aumenta il costo del grano o dell’olio di girasole, come successo nel 2022, a causa della crisi russo-ucraina, il prezzo del pane, pasta o prodotti da forno aumenta in tutta Italia o c’è qualcuno che pensa davvero che l’aumento si faccia sentire solo a Milano e Torino? In un’economia globalizzata l’inflazione segue dinamiche scollegate dalle economie locali: i rialzi dei costi dei beni energetici (benzina, gasolio, gas, metano) o di qualunque bene importato fanno schizzare in alto i prezzi in tutta Italia, con sfumature locali.
La proposta della Lega dunque, che non è una soluzione alla protezione della difesa d’acquisto dei lavoratori, favorisce l’appiattimento degli stipendi verso il basso, specie in quei territori, del centro-sud, dove gli stipendi sono già bassi. Anche per l’evidente debolezza del sistema di relazioni industriali che a sud ‘macina’ meno accordi delle realtà industrializzate del nord. Di conseguenza nelle aree del centro sud, isole comprese, ma anche in molte aree del nord del Paese, e in quei settori con lavorazioni a basso valore aggiunto, gli stipendi continuerebbero a rimanere ai livelli attuali.