Il Trattamento di Fine Servizio (TFS) rimane un miraggio per i dipendenti statali, che per averne un anticipo sono costretti a chiedere un prestito alle banche. A tasso calmierato, almeno.
Le banche potranno anticipare fino a 45.000 euro di TFS agli statali che vanno in pensione. Per avere la somma rimanente dovranno attendere i tempi regolamentari: quindi da 2 a 7 anni.
La Corte Costituzionale ha bocciato tale modus operandi e ha ritenuto incostituzionale il ricorso da parte dei pensionati a un anticipo del TFS erogato dalle banche. Ha anche chiesto al Parlamento e al governo di intervenire per mettere fine al versamento ritardato della liquidazione agli statali.
Senza successo, visto che ABI (l’associazione bancaria) e il Governo sono a lavoro per rinnovare l’accordo quadro sottoscritto nel 2020 e già prorogato una volta nel 2022.
Il pagamento della liquidazione degli statali, infatti, è differito nel tempo. È per questo che i dipendenti pubblici sono costretti a chiedere i soldi della liquidazione in prestito alle banche.
La prima rata, per un massimo di 50 mila euro, è pagata dopo un anno. La seconda rata, tra i 50 e i 100 mila euro, arriva dopo altri dodici mesi. La parte restante, se supera i 100 mila euro, la si ottiene dopo un ulteriore anno. Come se non bastasse, chi va in pensione in anticipo usufruendo per esempio di Quota 103, prima di incassare la prima rata deve attendere il compimento dei 67 anni di età.
Il motivo per cui il Governo opta per un dilazionamento nel tempo del TFS è semplice: erogarlo tutto insieme gli costerebbe troppo. INPS aveva quantificato la spesa in 14 miliardi di euro.
Nei mesi scorsi c’è stata una proposta per ridurre, da un anno a tre mesi, il tempo di pagamento della prima rata del TFS e, al contempo, aumentare l’importo di questo primo versamento da 50 mila fino a 63.600 euro. Proposta che la Ragioneria generale dello Stato non ha tardato a rigettare, visto che sarebbe costata 3,8 miliardi di euro.