L’art. 23 della Manovra di Bilancio 2025 ha disposto importanti novità circa il mantenimento in servizio dei dipendenti pubblici.
Finora, il datore di lavoro pubblico era obbligato a risolvere il rapporto di lavoro tra il compimento del 65° e del 67° qualora in questo periodo il dipendente avesse maturato il requisito della pensione anticipata.
Il requisito della pensione anticipata viene raggiunto con 42 anni e 10 mesi (più tre mesi di finestra d’uscita) per gli uomini e con 41 anni e 10 mesi (più tre mesi di finestra) per le donne.
Con la manovra 2025 il limite ordinamentale passa da 65 a 67 anni e questo vuol dire che anche il dipendente pubblico che raggiunge il diritto alla pensione anticipata non potrà essere collocato a riposo obbligatoriamente prima del compimento dei 67 anni.
Il principale effetto dello spostamento dell’età pensionabile di 2 anni non è un disincentivo in caso di dimissioni.
Il dipendente, una volta raggiunto il diritto alla pensione anticipata potrà sempre andare in pensione ma per dimissioni, se ha meno di 67 anni.
Con le dimissioni, il TFS o il TFR viene liquidato posticipato di due anni anziché dopo un anno.
Malgrado la norma sia stata definita anticostituzionale, l’effetto collaterale del provvedimento provoca lo slittamento di un anno per chi sarebbe andato in pensione con il precedente requisito della vecchiaia di 65 anni.
Alcun incentivo o beneficio viene dunque riconosciuto prima del compimento dei 67 anni.
Compiuti i 67 anni, il dipendente può optare di continuare il rapporto di lavoro qualora la continuazione del servizio sia nell’interesse dell’Amministrazione.
Il rapporto di lavoro non potrà continuare oltre il 70° anno.
L’incentivo economico per i lavoratori è il risparmio dell’11,15% delle ritenute previdenziali che sono formate da:
In mancanza di contributi versati, il periodo non è valido ai fini pensionistici.
Dal trattenimento in servizio dei dipendenti, tuttavia, è lo Stato che ci guadagna di più e precisamente: