Pensioni, maxi-taglio fino a 14mila euro e uscite più lontane: la stangata del Governo Meloni

Con la Legge di Bilancio 2024 (L. 213/2023) il Governo Meloni ha introdotto un taglio alla quota retributiva delle pensioni dei dipendenti pubblici con meno di 15 anni di contributi al 31 dicembre 1995. Colpiti gli iscritti a CPDEL, CPS, CPI e CPUG.


Il Messaggio INPS n. 2491 del 25 agosto 2025 conferma che tutte le pensioni anticipate liquidate prima dei 67 anni subiranno riduzioni. Una misura retroattiva, che incide su posizioni già maturate, con seri dubbi di costituzionalità.

Gli acronimi che compaiono nel documento si riferiscono alle gestioni pensionistiche dei dipendenti pubblici, che un tempo erano separate e oggi sono confluite nell’INPS (Gestione Dipendenti Pubblici, ex INPDAP).

Ecco il dettaglio:

  • CPDELCassa Pensioni Dipendenti Enti Locali
    (copriva dipendenti di comuni, province, regioni, enti locali).
  • CPSCassa Pensioni Sanitari
    (copriva il personale del Servizio Sanitario Nazionale, ospedali e strutture sanitarie pubbliche).
  • CPICassa Pensioni Insegnanti
    (copriva il personale insegnante delle scuole elementari statali).
  • CPUGCassa Pensioni Ufficiali Giudiziari
    (copriva gli ufficiali giudiziari e altri dipendenti del comparto giustizia).

Tutte queste casse sono state inglobate nell’INPDAP nel 1994 e poi nell’INPS nel 2012, ma i nomi rimangono per indicare le diverse categorie di lavoratori pubblici coinvolti.

Gli effetti sui lavoratori: cifre e categorie

Secondo le stime elaborate dalla CGIL, nel 2043 saranno oltre 730.000 i lavoratori colpiti, con tagli complessivi da 33 miliardi di euro. Le cifre parlano chiaro: per una retribuzione annua di 30mila euro i tagli vanno da 927 € a 6.177 € l’anno. Per chi guadagna 50mila euro si sale da 1.545 € a oltre 10.296 €, mentre con 70mila euro le perdite arrivano fino a 14.415 € annui.
Per la prima volta, neanche con la Legge Fornero era successo, si interviene retroattivamente sulle pensioni future dei dipendenti pubblici.

Finestra di uscita più lunga

Non basta il taglio. Dal 2025 si allungano anche le finestre di uscita per il pubblico impiego. Oggi l’attesa è di 3 mesi, ma salirà progressivamente: 4 mesi nel 2025, 5 nel 2026, fino a 9 mesi dal 2028.
Questo significa che chi accede alla pensione anticipata dovrà restare al lavoro fino a 9 mesi in più rispetto al previsto. Il rischio concreto è che chi ha iniziato a lavorare presto arrivi a 48/49 anni di contributi per evitare penalizzazioni.

TFR bloccato e ricorsi in arrivo

Al danno si aggiunge la beffa del TFR e TFS, che restano bloccati e non liquidati nei tempi previsti. Nonostante la Corte costituzionale abbia chiesto un intervento, il Governo non è intervenuto e i dipendenti pubblici che si pensionano sono costretti ad attendere o a indebitarsi.

Anzi, si ipotizza di usare il TFR per accedere al pensionamento anticipato.
Inoltre, il messaggio INPS apre altre criticità: applica i tagli anche nei casi di cumulo contributivo e non riconosce alcune deroghe. La CGIL parla di attacco ai dipendenti pubblici e annuncia ricorsi fino alla Consulta per difendere pensioni e liquidazioni.