Prosegue l’inchiesta dei pm di Bergamo per epidemia colposa. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati dei primi due nomi – al momento rimasti segreti – gli inquirenti che indagano sulla mancata istituzione rossa nella zona della Bergamasca, sulla gestione dell’ospedale di Alzano Lombardo (chiuso per poche ore dopo la scoperta del primo caso di Covid 19) e sulle morti nella residenze sanitarie, hanno nominato come consulente il professor Andrea Crisanti, il virologo chiamato dall’Imperial College di Londra a Padova, ha contribuito ad arginare l’epidemia nel Veneto, guidato da Luca Zaia.
Uscendo dalla Procura di Bergamo dopo aver incontrato il procuratore facente funzione Maria Cristina Rota, il direttore del dipartimento di Medicina molecolare e virologica dell’Università di Padova ha spiegato: “Ho ricevuto quattro quesiti sull’ospedale di Alzano e sulla zona rossa, non sulle Rsa. Mi avvarrò della collaborazione di esperti di statistica. Mi sono preso 90 giorni di tempo per consegnare risultati“. “Spero di fare bene anche qui, non so se sarò in grado. “Se all’ospedale di Schiavonia avessimo fatto come ad Alzano, sarebbe stata una strage”, ha commentato riferendosi alla mancata chiusura dell’ospedale Pesenti Fenaroli della cittadina lombarda. L’ospedale di Schiavonia, come del resto quello di Codogno, fu chiuso il 22 febbraio, appena furono registrati i primi casi. Furono immediatamente predisposti tamponi per tutti e decisa l’istituzione della zona rossa.
Nei giorni scorsi era circolata l’ipotesi che Crisanti potesse essere nominato consulente della procura che indaga su più fronti con un pool di quattro pm. Nell’ambito dell’inchiesta sulla mancata zona rossa i pm bergamaschi, nei giorni scorsi, avevano sentito come persone informate sui fatti il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, i ministri della Salute e dell’Interno Roberto Speranza e Luciana Lamorgese, il presidente della Regione Lombardia. Attilio Fontana e l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera.
In procura come testimoni sono stati sentiti anche il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, e l’ex direttore generale della sanità, Luigi Cajazzo, recentemente trasferito ad altro incarico. Nelle scorse settimane Cajazzo era stato ascoltato e aveva messo a verbale, tra l’altro, che la decisione di riaprire il pronto soccorso della struttura il 23 febbraio, dopo l’accertamento dei primi due casi di Coronavirus, era stata “presa in accordo con la direzione generale della Asst di Bergamo Est“, in quanto era stato assicurato che era “tutto a posto”: i locali sanificati e predisposti “percorsi separati Covid e no Covid”. Una versione che però era stata smentita da un’inchiesta giornalistica del Tg1 che il 10 aprile aveva mandato in onda un servizio in cui un medico presente alla riunione del 23 febbraio aveva raccontato che a decidere fu lui: “Il 23 febbraio è arrivata la chiamata del direttore generale dell’assessorato al Welfare Cajazzo, che ha detto: non si può fare, perché c’è almeno un malato di Covid in ogni provincia, non possiamo chiudere oggi Alzano, tra due ore Cremona…Quindi riaprite tutto“. L’ordine, quindi, sarebbe arrivato dal cuore della Regione Lombardia. “Noi – continua il testimone – non sapevamo che Alzano sarebbe stata epicentro italiana, sapevamo solo di Codogno e quindi credevamo si dovesse fare come a Codogno”. Cioè chiudere e sigillare tutto. Ma così non è stato. Cosa hanno pensato i medici dopo che da Milano è arrivato l’ordine di riaprire il pronto soccorso? ”Siamo morti. Abbiamo pensato: se noi tecnici dobbiamo dipendere da loro, siamo morti“. Dopo tre giorni metà delle persone presenti a quella riunione si era ammalata.
Dalla mancata chiusura dell’ospedale alla mancata istituzione della zona rossa è stato un attimo. Il 27 febbraio l’assessore Gallera dice che si stava “guardando con attenzione alla zona di Alzano Lombardo” anche se “al momento”,dichiarò , “non c’è nessuna ipotesi di introdurre nuove zone rosse”. L’ipotesi però comincia a diventare concreta il 3 marzo. “Abbiamo chiesto all’Istituto Superiore di Sanità di fare valutazioni e suggerire a noi e al governo le migliori strategie”. E proprio il 3 marzo il Comitato tecnico scientifico fa sapere che sarebbe stata necessaria la chiusura della zona. Da qui la richiesta di approfondimenti da parte del premier Conte per sapere se sarebbe bastata o se andasse chiusa tutta la Lombardia.
Due giorni dopo, il 5 marzo, Silvio Brusaferro, risponde che la zona rossa ad Alzano e Nembro va fatta. A testimoniare che si sta più che pensando di delimitare l’area ci sono le segnalazioni degli abitanti della zona sull’arrivo dell’esercito e delle forze dell’ordine. Il 5 marzo è Gallera ad annunciare che dopo la richiesta degli “esperti dell’istituto Superiore di Sanità” la Regione ha dato “l’assenso ma ora il governo deve fare le sue valutazioni“. Ed è sempre lui a sbottare il giorno dopo: “l’Iss aveva formulato una richiesta precisa al governo. Se questa risposta fosse arrivata tre giorni fa avrebbe evitato di lasciare nell’incertezza i cittadini”.L’incertezza finisce l’8 marzo quando un decreto della Presidenza del Consiglio, che entra in vigore il 9, decide la chiusura di tutta la Lombardia e di 14 province. Non in modalità “zona rossa”, ma in una versione meno restrittiva, che fu ribattezzata “zona arancione”. Da lì scoppia la polemica sulla mancata istituzione della zona rossa nella media Val Seriana.
L’articolo Coronavirus, Crisanti consulente dei pm. “Sarebbe stata una strage se all’ospedale di Schiavonia avessimo fatto come ad Alzano” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Fonte: ilfattoquotidiano.it