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Inchiesta sulle mascherine cinesi | Quei mesi in cui i dispositivi erano introvabili, dai blocchi alle frontiere all’allarme negli ospedali

Non è passata nemmeno una settimana dal 9 marzo, il giorno in cui tutta Italia diventa “zona protetta” e di fatto scatta il lockdown, quando dagli ospedali arriva il primo nitido allarme sulla carenza di dispositivi di protezione individuale: le mascherine sono già finite e i rifornimenti che arrivano dalla Protezione civile non bastano. La macchina di approvvigionamento nazionale e quelle regionali vanno in tilt: l’Italia non ha una propria produzione, tutto si regge sull’importazione. Ma in quei giorni il mondo intero ha bisogno di mascherine e nessuno governo ha intenzione di farle uscire dal Paese: le partite vengono bloccate alle frontiere, anche quelle interne all’Unione europea. Il 24 marzo gli ospedali devono far fronte a 21.937 pazienti Covid ricoverati, oltre ad altri 3.396 che si trovano in terapia intensiva. Ma le mascherine distribuite alle Regioni non raggiungono il 30% del reale fabbisogno: l’Italia intera, viene calcolato, necessita di almeno 90 milioni di dispositivi al mese. È in questo contesto che, fra il 26 marzo e il 15 aprile, il commissario straordinario Domenico Arcuri stipula i tre contratti con altrettante società cinesi – per la fornitura di 801 milioni di mascherine al prezzo di 1,2 miliardi di euro – ora al centro dell’inchiesta della Procura di Roma.

Il caso scoppia in Lombardia, la Regione dove gli ospedali sono già stati travolti dal virus: in conferenza stampa l’allora assessore al Welfare Giulio Gallera si lamenta perché al posto delle mascherine “ci hanno mandato un fazzoletto, un foglio di carta igienica”. La polemica è riferita alla Protezione civile e ad Angelo Borrelli. La gestione operativa del sistema sanitario però è in mano alle Regioni. In Lombardia già dopo il 20-21 febbraio, i giorni della scoperta del paziente uno a Codogno, gli ospedali vedono calare i rifornimenti e i magazzini si svuotano. Le autorità locali, poi anche quelle nazionali, commettono un errore di sottovalutazione: così, con l’Italia in lockdown, lo strumento essenziale per la lotta al coronavirus diventa introvabile, innanzitutto per chi la battaglia la deve condurre in prima linea.

Per tutto il mese di marzo la situazione non si sblocca, perché nessun Paese al mondo che produce mascherine ha intenzione di venderle. Succede con l’India, con la Romania, perfino con la Francia. I lotti acquistati vengono fermati alle frontiere, requisiti e trattenuti. Succede il 5 marzo alla dogana di Ankara, lo fa anche Angela Merkel (che poi ritratta ma accetta la consegna di solo un milione di mascherine). “Quello che si sta verificando in tutto il mondo è una chiusura delle frontiere all’esportazione. Il lavoro che stiamo facendo noi e che fanno le Regioni è faticoso, si lavora fino a notte tarda e poi magari non si ricevono conferme per gli ordini emessi”, dice la sera del 14 marzo Angelo Borrelli, rispondendo a Gallera e agli appelli che arrivano da tutta Italia. Il problema è che manca una produzione interna: comincia l’opera di riconversione, ma i tempi sono troppo lunghi rispetto ai fabbisogni dell’emergenza.

La ricerca delle mascherine diventa quasi drammatica: terreno fertile per improvvisati broker e intermediari, come dimostrano i casi di frode emersi nelle settimane successive. La Regione Lombardia paga 10 milioni di euro delle mascherine fantasma, così come nel Lazio non si sono mai viste le 7,5 milioni di Ffp2 e Ffp3 acquistate in quei giorni. Due esempi che valgono per tutti, senza dimenticare l’inchiesta a carico dell’ex presidente della Camera Irene Pivetti per il caso della vendita di mascherine non a norma. I problemi infatti riguardano anche i dispositivi privi dei requisiti necessari, indispensabili per evitare il contagio soprattutto negli ospedali: già il 9 aprile la Guardia di Finanza effettua sequestri da Foggia a Torino, da Palermo a Perugia, da Reggio Calabria a Pescara, da Roma a Padova. Perfino la ricchissima provincia di Bolzano, che decide di appoggiarsi all’Austria, compra per 9 milioni 300 mila euro delle mascherine che alla prova dei fatti risultano difettose. L’emergenza proseguirà anche ad aprile e poi a maggio, quando a diventare introvabili saranno le mascherine vendute nelle farmacie, prese d’assalto dai cittadini in vista dell’inizio della Fase 2.

L’articolo Inchiesta sulle mascherine cinesi | Quei mesi in cui i dispositivi erano introvabili, dai blocchi alle frontiere all’allarme negli ospedali proviene da Il Fatto Quotidiano.

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Fonte: ilfattoquotidiano.it

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