Il “bonus Meloni“, o taglio del cuneo contributivo, o decontribuzione, ha prodotto un effetto paradossale sugli stipendi: se diminuisce il netto aumenta il lordo e viceversa.
Vediamo come questo sia possibile.
Due mensilità a confronto
In questo esempio prenderemo in considerazione uno stipendio di un funzionario di III area dell’Agenzia delle Entrate.
Le mensilità che prenderemo in considerazione sono quelle di mesi di novembre 2023 e gennaio 2024.
Nello stipendio del mese di novembre, l’imponibile previdenziale è di € 2.723,92.
Per soli 22 euro in più, il funzionario non percepisce il bonus Meloni pari al 6% dell’imponibile previdenziale.
Nel mese di gennaio non è stato rinnovato, per l’anno 2024, l’assegno temporaneo di 33,17 euro.
L’assegno temporaneo era stato infatti finanziato per il solo 2023 e la legge di bilancio non ha previsto il rinnovo.
A questo punto l‘imponibile previdenziale scende a 2.690,75 euro mensili e, per soli 1,25 euro, il nostro funzionario rientra nel diritto a percepire il taglio del cuneo contributivo con un rimborso pari a 161,45 euro, di 5 volte superiore dell’assegno temporaneo soppresso al 31 dicembre 2023.
Con il “bonus Meloni” meglio prendere gli arretrati più tardi
In questo caso, abbiamo visto come la decontribuzioni abbia avvantaggiato il dipendente preso ad esempio.
Tuttavia, basta solamente un piccolissimo innalzamento dello stipendio, anche di pochi euro, per far perdere il diritto.
L’erogazione del “bonus Meloni” avviene sempre nel mese successivo per dar modo a NoiPA di controllare l’effettivo diritto al bonus.
Il taglio del cuneo fiscale, infatti, viene erogato in base all’imponibile previdenziale mensile come previsto dalla messaggio INPS 1932 del 24 maggio 2023.
Al contrario del conguaglio fiscale, con il quale tutti, a parità di reddito, paghiamo le medesime imposte, con il taglio del cuneo fiscale viene avvantaggiato chi percepisce arretrati in ritardo rivelandosi una misura, se non iniqua, certamente non equa.