Un contratto vale l’altro? Assolutamente no. Firmare un contratto collettivo sottoscritto da sigle minori — i cosiddetti “contratti pirata” — può costare caro al lavoratore. Non solo in termini economici, ma anche di tutele, scatti di anzianità, coperture sanitarie e contributi per la pensione.
Un’analisi dell’Ufficio Studi di Confcommercio mette nero su bianco l’entità delle perdite: nei settori terziario e turismo si parla di quasi 8.000 euro all’anno, con picchi che superano anche i 12.000 euro.
Ma a rimetterci non sono solo i dipendenti: anche le aziende che applicano i contratti più solidi — come quello Confcommercio, il più diffuso in Italia nel settore terziario — vengono penalizzate dalla concorrenza sleale di chi risparmia tagliando su salari e diritti.
Contratti pirata: cosa ci perde davvero un lavoratore
Secondo lo studio, condotto nei settori terziario e turismo, la Retribuzione annua lorda (RAL) prevista dal CCNL Confcommercio Terziario si aggira sui 24.613 euro. I contratti alternativi firmati da sigle minori garantiscono una retribuzione mediamente inferiore di 6.500 euro.
E il danno non finisce qui: monetizzando anche la perdita su elementi accessori come:
- Straordinari non retribuiti correttamente,
- Indennità ridotte per malattia o infortunio (20-25% invece del 100%),
- Meno ferie, meno permessi e meno ex festività,
- Assenza di scatti di anzianità,
- Nessun contributo per sanità integrativa o previdenza complementare,
la perdita media per il lavoratore sale a 7.921 euro all’anno, con punte fino a 12.200 euro nei casi più svantaggiosi.
Un danno anche per le imprese che rispettano le regole e per lo Stato
Nel turismo e nel terziario, i Ccnl firmati da sigle minori sono oltre 200 e riguardano circa 160 mila dipendenti e oltre 21 mila aziende. Gli effetti nel sottoscrivere i contratti pirata, però, non coinvolgono solo i dipendenti che li firmano: anche lo Stato e le altre aziende ci rimettono.
Il fenomeno dei contratti pirata, infatti, crea un pericoloso dumping salariale e normativo. In pratica, alcune aziende risparmiano sul costo del lavoro, pagando meno i propri dipendenti e offrendo condizioni peggiori, mentre le imprese corrette — che applicano i contratti ufficiali — si trovano a competere in condizioni di svantaggio.
Secondo i calcoli di Confcommercio:
- Il minor costo complessivo per le imprese che usano contratti pirata ammonta a 1,3 miliardi di euro l’anno;
- Il minor gettito contributivo per lo Stato è pari a 339 milioni (che peserà sulle pensioni future dei lavoratori);
- Il minor gettito fiscale è pari a 214 milioni di euro.
In totale, mancano 553 milioni di euro all’appello tra fisco e contributi: un danno anche per lo Stato.
Dove sono più diffusi i contratti pirata
Non è un caso che la ricerca l’abbia condotta Confcommercio. Il fenomeno dei contratti pirata, infatti, è presente soprattutto nei settori del terziario e del turismo, soprattutto nelle microimprese e nelle cooperative.
Le aree più colpite sono quelle economicamente più fragili, dove spesso i lavoratori non hanno alternative e accettano condizioni meno tutelanti pur di lavorare. Tra le regioni dove i contratti pirata sono più diffusi, infatti, ci sono:
- Calabria (11% dei lavoratori del settore ha un contratto pirata),
- Sicilia (8,9%),
- Campania (8,5%),
- Puglia (7%).
Alla luce dei dati emersi, Confcommercio ha quindi chiesto al governo un impegno concreto per impedire l’applicazione di contratti sottocosto, che “minano le regole della concorrenza, svalutano il lavoro e creano disparità tra imprese e tra lavoratori” ha sottolineato il ha detto il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli. Da lui è arrivato anche l’invito a rafforzare la collaborazione con i sindacati per tutelare davvero il lavoro, in ogni settore.