La decisione è arrivata il 13 novembre 2025, con una sentenza destinata a far discutere. La Corte Costituzionale ha stabilito che il “raffreddamento” della perequazione delle pensioni più alte – cioè l’aumento ridotto per gli assegni superiori a quattro volte il minimo INPS – non viola la Costituzione.
Una conclusione che conferma la linea assunta già in passato: l’intervento sulle pensioni elevate, se mirato e proporzionato, può essere considerato legittimo per mantenere in equilibrio il sistema previdenziale.
Perché la Corte ha ritenuto legittimo il meccanismo di perequazione ridotta
La questione nasce dal ricorso di alcuni ex dipendenti del comparto difesa e sicurezza, che contestavano la riduzione della rivalutazione delle pensioni più alte. La Corte dei Conti dell’Emilia-Romagna aveva sollevato dubbi di costituzionalità, parlando di possibili disparità tra pensionati e lavoratori in servizio, e anche tra diverse categorie di pensionati.
La Corte Costituzionale ha però respinto queste censure con argomentazioni precise.
Il principio è che il raffreddamento della perequazione non rappresenta un prelievo tributario. A differenza di un taglio vero e proprio, non c’è una diminuzione dell’importo della pensione: l’assegno continua ad aumentare, anche se in misura inferiore rispetto alla perequazione piena. Non esiste dunque una sottrazione patrimoniale, condizione essenziale per parlare di imposta o contributo straordinario.
La perequazione sulle pensioni non è un “diritto assoluto”
Per la Corte, l’obiettivo della norma non è fare cassa per coprire la spesa pubblica. L’intento è invece quello di preservare la sostenibilità complessiva del sistema pensionistico e tutelare le pensioni più basse, che beneficiano maggiormente di una rivalutazione piena. Si tratta quindi di un intervento interno al sistema previdenziale, giustificato dall’esigenza di equilibrio finanziario.
La Corte ritiene inoltre che la misura rispetti i principi di ragionevolezza e proporzionalità perché non incide sul diritto alla pensione, ma solo su un meccanismo tecnico: la perequazione automatica.
Quest’ultima – precisa la Consulta – non è un diritto assoluto e può essere modulata dal legislatore, soprattutto quando si interviene in maniera differenziata per proteggere le fasce più deboli.
Pertanto, secondo i giudici, il legislatore può adottare misure differenziate se queste hanno una giustificazione oggettiva, come nel caso della sostenibilità del sistema. La Corte ha quindi dichiarato infondate le questioni di incostituzionalità sollevate.
Il commento dei militari
La vicenda era stata portata davanti alla Corte Costituzionale dalla Corte dei Conti dell’Emilia-Romagna, chiamata a esprimersi sul ricorso di ex appartenenti al comparto difesa e sicurezza. Questi contestavano che la rivalutazione ridotta creasse disparità tra pensionati di categorie diverse e rispetto al personale ancora in servizio.
Questo il loro commento una volta appurata la legittimità della perequazione parziale, pubblicato su NSM:
«Il non riconoscere che c’è stata una sottrazione del patrimonio del pensionato (diminuzione del valore reale della pensione nel tempo) è certamente la parte meno condivisibile della sentenza, in quanto l’effetto “trascinamento” produce una perdita di potere d’acquisto permanente. Infatti, le riduzioni, accumulandosi nel tempo, comportano perdite significative sia nel breve che nel lungo periodo e colpiscono in particolare le pensioni più alte con percentuali di rivalutazione decrescenti».
La perdita netta per i pensionati, si legge su NSM, parte da un minimo di 10.082 euro per i pensionati con reddito annuo di 2.000 euro e arriva fino a un massimo di 24.224 euro per chi ha una pensione pari a 4.000 euro annui.
«Questo è semplicemente l’ultimo atto di vent’anni di penalizzazione dei pensionati, in cui quasi tutti i governi hanno fatto cassa con le pensioni» concludono.



