I docenti che lavorano durante la refezione hanno diritto al servizio mensa gratuito, ma non a un pasto completo con primo e secondo piatto. Basta che il pasto sia adeguato alle esigenze nutrizionali, anche se più semplice.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, respingendo il ricorso di alcuni insegnanti che recriminavano un pasto ridotto.
La sentenza della Cassazione: pasto sì, ma non per forza completo
Con l’ordinanza n. 2844/2025, pubblicata il 17 luglio 2025, la Corte Suprema ha respinto il ricorso presentato da un gruppo di insegnanti contro il Ministero dell’Istruzione, un Istituto Comprensivo e un Comune.
I docenti avevano chiesto che venisse riconosciuto il diritto a ricevere un pasto completo, composto da primo, secondo, contorno, frutta e pane. Questi, infatti, ricevevano solo un pasto ridotto, privo del secondo piatto.
La Cassazione ha detto no: la legge e il contratto nazionale non garantiscono un pasto “a due portate”, ma solo un servizio mensa adeguato alle esigenze di chi lavora durante l’orario del pranzo.
Il servizio mensa è un aiuto, non un benefit contrattuale
Secondo i giudici della Cassazione, il servizio mensa per i docenti non è un premio né un diritto economico, ma un’agevolazione assistenziale. Quindi un aiuto pensato per tutelare il benessere fisico e psicologico di chi lavora a scuola, come insegnanti e personale ATA.
Questo significa che:
- Non deve per forza essere un pranzo completo.
- Basta che sia nutrizionalmente adeguato.
- Non è legato a un valore economico da garantire.
Le accuse dei docenti non hanno convinto i giudici
Nel loro ricorso, gli insegnanti hanno sostenuto che fosse “pacifico” il diritto al pasto completo, e che fosse evidente la mancanza del secondo piatto a partire dal 2015.
Tuttavia, la Corte d’Appello prima, e la Cassazione poi, hanno sottolineato che non è stato dimostrato che il pasto offerto non fosse adeguato, anche senza il secondo piatto.
I docenti si sono appellati anche alle Linee di indirizzo nazionali per la ristorazione scolastica approvate nel 2010, che parlano della composizione dei pasti nelle scuole. Ma la Cassazione ha spiegato che queste non sono norme vincolanti, ma solo atti di indirizzo politico e amministrativo. Non possono quindi essere usate come base per un ricorso legale.
Per tali motivi, il ricorso è stato dichiarato completamente inammissibile, e i docenti dovranno ora rimborsare le spese legali, per un totale di oltre 8.000 euro, da dividere tra Ministero, Istituto scolastico e Comune.



