HomeEvidenzaDiscriminazione sul Lavoro: Condannata la Scuola che ha Negato lo Smart Working

Discriminazione sul Lavoro: Condannata la Scuola che ha Negato lo Smart Working

Un caso portato all’attenzione del Tribunale del Lavoro di Latina ha segnato un punto fermo nella tutela dei diritti delle persone con disabilità o gravi patologie. Al centro della vicenda c’è una lavoratrice pubblica, in cura per una malattia oncologica, alla quale è stato negato lo smart working richiesto durante il periodo di terapia.

Il giudice ha riconosciuto che si è trattato di una discriminazione per disabilità e ha condannato l’amministrazione al risarcimento del danno, ribadendo che l’inclusione lavorativa è oggi un obbligo giuridico e non una scelta discrezionale del datore.

Il caso: lavoratrice oncologica chiede lo smart working, ma la scuola rifiuta senza motivazioni

La protagonista della vicenda è una D.S.G.A. (Direttrice dei Servizi Generali e Amministrativi) impiegata in un istituto scolastico. A causa della malattia oncologica in corso, la donna seguiva una terapia salvavita con effetti collaterali debilitanti.

Per poter continuare a lavorare e allo stesso tempo affrontare le cure, la lavoratrice aveva chiesto di svolgere la propria attività in smart working, almeno durante il primo periodo della terapia.

La scuola, però, non ha mai risposto formalmente alla richiesta. Il diniego è arrivato per fatti concludenti, cioè con il silenzio e l’inazione: nessuna motivazione scritta, nessuna valutazione, nessuna alternativa proposta.

Discriminazione per disabilità: il Tribunale condanna al risarcimento

Di fronte a questo silenzio, la lavoratrice si è rivolta al Tribunale del Lavoro di Latina, che con la sentenza n. 925/2025 del 7 luglio 2025, ha riconosciuto il diritto della ricorrente a un risarcimento per discriminazione.

Il giudice ha stabilito che negare lo smart working senza giustificazione, in presenza di una disabilità o grave malattia, integra una condotta discriminatoria, contraria al diritto europeo e alla normativa italiana vigente.

Il principio chiave è quello di “accomodamento ragionevole”: ogni datore di lavoro ha l’obbligo legale di adottare misure personalizzate per consentire al lavoratore disabile o malato di svolgere la propria attività in modo dignitoso e sicuro.

Quanto è stato risarcito e perché: una decisione che fa scuola

Il risarcimento non ha solo una funzione riparatoria, cioè compensare il danno subito. Deve avere anche una funzione dissuasiva, per evitare che in futuro altri lavoratori subiscano lo stesso trattamento.

Per quantificare il danno, il giudice ha applicato i criteri dell’art. 17 della Direttiva europea 2000/78 e dell’art. 11 della legge italiana n. 689/1981, che disciplinano le sanzioni pecuniarie per condotte discriminatorie. È una scelta innovativa e significativa: una delle prime in Italia ad adottare questo approccio.

La sentenza apre la strada a una nuova interpretazione del danno da discriminazione, in cui la tutela del lavoratore passa anche per un riconoscimento economico chiaro, proporzionato e giuridicamente fondato.

Lo smart working non è una concessione, è un dovere

Questa vicenda insegna che la disabilità e la malattia non devono mai essere motivo di esclusione dal mondo del lavoro. Il datore ha il dovere di adattare l’organizzazione del lavoro alle esigenze della persona, quando ciò è possibile e ragionevole.

Negare lo smart working, quando rappresenta un’opportunità concreta di conciliazione tra lavoro e salute, non è solo ingiusto. È illegale.

Il diritto europeo è sempre più centrale nella tutela di questi diritti: basti pensare alle recenti pronunce della Corte di Giustizia dell’UE, che hanno rafforzato il diritto all’orario flessibile per chi assiste un familiare disabile (causa C-38/24) e il principio secondo cui le assenze per malattia legate alla disabilità non devono essere conteggiate nel periodo di comporto (causa C-5/24).

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