Dazi USA, crisi dell’automotive, taglio dell’Irpef sui rinnovi contrattuali, salario, clausola IPCA e tassa sui grandi patrimoni. Sono i temi affrontati da Antonio Casano, presidente di Unionmeccanica Confapi Torino, nell’intervista concessa a TuttoLavoro24.it.
Nei giorni in cui si attende la Manovra di Bilancio, l’imprenditore lancia un allarme sulle difficoltà delle PMI metalmeccaniche piemontesi, chiede una risposta europea contro il protezionismo statunitense, una detassazione piena sugli aumenti contrattuali e boccia la tassa sui grandi patrimoni proposta dal leader della CGIL, Maurizio Landini.
Dazi USA, filiera in crisi: “Serve una risposta europea, le PMI non reggono più”
Nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno avviato una nuova ondata di dazi sui prodotti europei, che colpisce direttamente settori chiave come meccanica, componentistica, metallurgia e subfornitura industriale. Molte imprese italiane, soprattutto di piccole e medie dimensioni, lavorano come fornitrici di grandi gruppi internazionali e rischiano di subire contraccolpi significativi sull’export. Quali effetti concreti state registrando tra le imprese metalmeccaniche italiane e quali segmenti della filiera risultano oggi più penalizzati da queste misure protezionistiche? Ritiene che l’Europa stia reagendo in modo adeguato o che serva una risposta più coordinata per difendere la competitività del nostro manifatturiero?
Le nuove misure protezionistiche statunitensi stanno già colpendo duramente le nostre PMI metalmeccaniche, in particolare quelle attive nella componentistica e nella subfornitura per grandi gruppi internazionali. Registriamo una crescente incertezza contrattuale. I segmenti più penalizzati sono quelli che operano su commessa e con margini ridotti, dove l’impatto dei dazi non è facilmente assorbibile. L’Europa, al momento, appare timida nella risposta. Serve un’azione più coesa e misure compensative per le filiere più esposte. Le nostre imprese non chiedono privilegi, ma regole eque per competere ad armi pari in un mercato globale sempre più instabile.
Crisi Stellantis e automotive torinese: “Senza un piano industriale chiaro, il sistema salta”
Restando sul fronte industriale, la crisi dell’automotive, in particolare in provincia di Torino, continua a pesare su investimenti e occupazione, coinvolgendo direttamente centinaia di piccole e medie imprese dell’indotto metalmeccanico. Quanto sta incidendo questa fase di incertezza sui programmi di investimento e sulla tenuta occupazionale delle PMI metalmeccaniche del territorio?
La crisi dell’automotive sta colpendo in modo diretto e profondo l’intero indotto metalmeccanico della provincia di Torino. Oltre il 45% delle imprese del comparto è legato alla filiera auto, e oggi si trova a fronteggiare una fase di incertezza strutturale, non più congiunturale. I programmi di investimento sono in forte rallentamento e la tenuta occupazionale è sotto pressione, con un ricorso alla cassa integrazione che ha coinvolto 7 lavoratori su 10 nel 2025. Le PMI stanno cercando di reagire, ma il contesto è difficile: la transizione verso l’elettrico procede a rilento, la domanda è volatile e le multinazionali adottano strategie industriali sempre meno radicate sul territorio. Il caso Stellantis ne è l’emblema. Nei primi nove mesi del 2025, la produzione in Italia è crollata del 31,5% rispetto all’anno precedente, con un calo del 36,3% per le autovetture. La transizione elettrica, anziché rafforzare la filiera nazionale, sembra aver accelerato la delocalizzazione e il ridimensionamento produttivo. Quando un grande player come Stellantis riduce investimenti, produzione e occupazione (parliamo di quasi 10.000 posti persi dal 2020) l’intero sistema ne risente. Questo indebolisce il tessuto produttivo locale e mette a rischio competenze, posti di lavoro e capacità di innovazione. Serve un piano industriale chiaro, vincolante e condiviso, che coinvolga imprese, istituzioni e governo. Senza una regia forte, il rischio è che Torino perda definitivamente il suo ruolo di capitale manifatturiera dell’automotive italiano. La nostra associazione è in prima linea nella difesa del lavoro, dell’innovazione e dello sviluppo locale, fungendo da punto di riferimento imprescindibile per le imprese metalmeccaniche e per l’intera filiera industriale torinese. Per Unionmeccanica Confapi Torino sostenere e tutelare le PMI significa non solo preservare posti di lavoro, ma alimentare la crescita economica e la competitività del territorio.
Taglio Irpef sugli aumenti contrattuali: “Serve una detassazione piena, non promesse a metà”
In vista della Manovra 2026 il Ministero del Lavoro sta elaborando una proposta per ridurre del 10% l’aliquota Irpef sugli aumenti derivanti dai rinnovi contrattuali, a partire dal 1° gennaio 2026. Ritiene che questa misura possa incentivare davvero il rinnovo dei contratti nazionali e sostenere il potere d’acquisto dei lavoratori, oppure teme che sia un intervento di portata limitata per le PMI metalmeccaniche?
La proposta di ridurre al 10% l’aliquota Irpef sugli aumenti derivanti dai rinnovi contrattuali è un segnale positivo, ma rischia di essere insufficiente per i lavoratori. Se davvero si vuole incentivare e sostenere il potere d’acquisto, serve una detassazione piena, al 100%, che comprenda anche la decontribuzione per le imprese. Oggi le aziende si trovano a dover gestire aumenti salariali in un contesto di costi crescenti, margini ridotti e forte instabilità dei mercati. Senza un alleggerimento strutturale del cuneo fiscale e contributivo, il rischio è che la misura si traduca in un beneficio parziale per i lavoratori e in un ulteriore onere per le imprese. Ma secondo alcuni, queste misure sarebbero troppo costose per le finanze pubbliche o ancor peggio che mancano le coperture.
In verità non è così. Gli aumenti contrattuali su cui si applicano queste misure non sono ancora avvenuti; quindi, non esiste alcun gettito fiscale o contributivo già acquisito che verrebbe perso. Al massimo, si rinuncia a una entrata aggiuntiva potenziale, ma in cambio si ottiene molto di più. Detassare gli aumenti salariali significa non tassare di più ciò che già oggi non esiste. È una misura che premia il lavoro e sostiene il potere d’acquisto. Non è una spesa pubblica, ma una rinuncia parziale a un gettito futuro che si genererebbe solo se quegli aumenti venissero tassati. Lo stesso vale per la decontribuzione, che non è un regalo alle imprese, ma una leva strategica per creare lavoro riducendone in minima parte il costo. Definire queste misure come “oneri” è una visione contabile che ignora la dinamica economica. In realtà, non tassare un aumento significa favorirlo, generando più reddito, più occupazione e più fiducia. Serve una visione più ampia: in tempi di stagnazione e incertezza, il lavoro va sostenuto con coraggio. Detassare e decontribuire gli aumenti contrattuali non è un lusso, ma una necessità per rilanciare il Paese. Non si tratta di spendere, ma di investire nel motore dell’economia: le aziende e le persone.
Ma, forse, si è già pensato al gettito fiscale aggiuntivo derivante dagli aumenti contrattuali. Solo nella metalmeccanica, considerando 1.200.000 addetti e 100 euro al mese per addetto, e considerando solo l’imposta sul reddito delle persone fisiche con le aliquote Irpef in essere al netto delle detrazioni, il conto è presto fatto: circa 380 milioni di gettito in più per anno. Ancor di più se consideriamo i contributi agli enti previdenziali.
Bisogna capirci: tassare tout court od innescare un volano virtuoso che aiuta i consumi ed avere comunque un gettito dalle imposte indirette? Le PMI non si sono mai opposte ai rinnovi, ma chiedono coerenza: se il contratto nazionale deve essere lo strumento per redistribuire valore, allora lo Stato deve intervenire con forza per garantire sostenibilità economica e competitività. Detassare solo una parte dell’aumento ma soprattutto non decontribuire è una soluzione di compromesso che non risponde alle esigenze reali del sistema produttivo. Sarebbe stato molto importante recepire in toto la proposta dell’onorevole Maurizio Casasco dello scorso maggio. In sintesi credo che poi, alla fine, resterà tutto nelle intenzioni e non ci sarà nessun intervento sugli aumenti derivanti dalla contrattazione collettiva.
Clausola IPCA e rinnovi contrattuali: “Nel nostro contratto la tutela c’è già, non è una novità”
Un altro punto della proposta ministeriale prevede che, in caso di mancato rinnovo del contratto entro 24 mesi, scatti automaticamente un adeguamento salariale basato sull’indice IPCA. Come giudica questa misura? Può rappresentare una tutela per i lavoratori o, al contrario, un fattore di rigidità contrattuale che rischia di pesare ulteriormente sui bilanci delle piccole imprese del settore metalmeccanico?
La misura proposta dal Ministero, che prevede un adeguamento salariale automatico basato sull’indice IPCA in caso di mancato rinnovo del contratto collettivo entro 24 mesi, non introduce alcuna novità sostanziale per le imprese metalmeccaniche aderenti al contratto Unionmeccanica-Confapi. Così come in tutti i contratti della metalmeccanica sottoscritti con le tre organizzazioni sindacali più rappresentative. Infatti, il nostro contratto nazionale già prevede una clausola di salvaguardia che garantisce l’adeguamento annuale dei minimi retributivi in base all’indice IPCA al netto degli energetici importati, indipendentemente dalla scadenza del contratto. Questo meccanismo, attivo e consolidato, assicura una tutela salariale continua per i lavoratori, adeguando la retribuzione all’indice inflattivo.
Tassa sui grandi patrimoni: “Colpire chi investe significa penalizzare chi crea lavoro”
Il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, ha rilanciato l’idea di un “contributo di solidarietà”: un’aliquota dell’1,3% sui patrimoni oltre i 2 milioni di euro, che secondo le stime potrebbe generare 26 miliardi di euro di gettito. La proposta è stata bollata come una patrimoniale e respinta dal Governo, ma resta tema di discussione politica. Qual è la posizione delle PMI su un intervento di questo tipo? Pensa che una tassa sui grandi patrimoni possa davvero ridurre le disuguaglianze o che a farne le spese siano poi le imprese e il sistema produttivo?
Le PMI non si oppongono al principio di solidarietà, ma questa proposta rischia di colpire proprio chi produce. Molti patrimoni superiori ai 2 milioni non sono frutto di rendita, ma di investimenti aziendali, immobili strumentali, partecipazioni societarie. Tassarli significa penalizzare l’impresa, non la ricchezza improduttiva. Colpire questi patrimoni rischia di penalizzare proprio le imprese che generano occupazione e valore aggiunto. Le disuguaglianze si riducono con politiche attive sul lavoro, formazione, innovazione e sostegno alle imprese. Non con misure simboliche che rischiano di indebolire il tessuto produttivo. Il gettito stimato è incerto, mentre l’effetto depressivo su investimenti e fiducia sarebbe immediato. È una misura che, così formulata, non distingue tra chi accumula capitale per speculazione e chi lo reinveste per creare occupazione. Le PMI chiedono equità vera, non scorciatoie fiscali che rischiano di compromettere la competitività del sistema industriale.



