Gli immigrati sono poveri e sono un costo per gli italiani: è questo, in sintesi, il messaggio che emerge leggendo l’articolo pubblicato su La Verità in edicola il 15 ottobre e firmato dal direttore Maurizio Belpietro, dal titolo emblematico: “Con gli immigrati importiamo povertà”.

Nel testo si legge che “il tasso di indigenza continua a crescere per gli extracomunitari, mentre cala leggermente per le famiglie italiane” e che “il rapporto è cinque a uno: significa che saremo noi in futuro a dover pagare assistenza, sussidi, abitazione e pensioni a chi è privo di risorse”.
Parole che non si limitano a descrivere una condizione sociale, ma che disegnano un confine simbolico tra chi “produce” e chi “pesa”, tra italiani e stranieri, come se la povertà avesse una nazionalità.
Quando la povertà diventa una colpa
Davvero si può dire che “importiamo povertà”? O non si rischia, piuttosto, di importare un modo di pensare che divide, che mette gli ultimi contro i penultimi, trasformando una questione economica in una battaglia identitaria?
Le parole di La Verità (“tra gli stranieri nel 2019 era in miseria il 26,9%, ora siamo oltre il 35%”) sembrano suggerire che la povertà sia un problema d’origine, non di sistema.
Un linguaggio che — pur in un contesto completamente diverso — richiama precedenti storici pericolosi, quando con legge vennero catalogati “italiani di serie a” e “italiani di serie b”, con serie conseguenze giuridiche da attribuire (ai secondi). La vicenda delle leggi razziali del 1938 dovrebbe far riflettere. E invece….
I salari bassi dimenticati dal racconto pubblico
C’è un aspetto che questa rappresentazione trascura quasi del tutto: i lavoratori immigrati in Italia sono pagati con salari molto bassi e spesso lavorano in nero, senza contributi, ferie o sicurezza.
Attribuire a loro la responsabilità della propria povertà significa ignorare il fatto che il nostro sistema economico sfrutta la manodopera straniera per tenere bassi i salari di tutti, italiani compresi.
Chi lavora dieci o dodici ore al giorno e resta povero non “importa povertà”: la subisce. È una povertà che viene prodotta dentro i confini, alimentata da contratti precari, paghe minime e un’economia sommersa che erode i diritti.
A chi serve questo racconto?
Ci si chiede allora a chi serva descrivere la povertà degli immigrati come un costo, e non come il sintomo di un modello economico che non garantisce dignità a chi lavora.
Forse serve a spostare l’attenzione dai veri problemi — i salari bassi, la precarietà, la mancanza di politiche industriali — verso un bersaglio facile, utile a dividere i ceti popolari.
Frasi come queste possono servire solo a disseminare odio in una società complessa e frustrata:
“non stiamo importando risorse, ma stiamo aprendo le porte a chi, invece di pagarci in futuro la pensione, ha bisogno di assistenza. E dunque di case popolari, sussidi per pagare le bollette e pure assistenza sanitaria gratis… l’immigrazione ha un costo, mai dichiarato ma che grava sul portafogli di tutti gli italiani.”
Una frase che riassume perfettamente la visione che i giornali filo-governativi intendono rappresentare: quella di un Paese che, invece di combattere la povertà, cerca di attribuirle un’origine, dimenticando che la vera emergenza sociale — per italiani e stranieri — si chiama lavoro sottopagato.



