“Aisha”, sentii la mia amica Kya chiamarmi. Mi trovavo nella sontuosa cucina del mio nobile padrone e stavo cucinando il pranzo per lui e la sua famiglia. Sì, io lavoravo per lui e, se proprio lo volete sapere, io non ero una domestica né una governante, io ero una schiava afroamericana privata della propria libertà solo per il colore della propria pelle. Era il 13 febbraio 1860, avevo 17 anni e non sapevo che quel giorno per me sarebbe tutto cambiato. Già da molto tempo ero considerata una donna adatta ai lavori di casa. Avevo i capelli ricci e corvini, la pella scura e gli occhi neri: i tipici tratti somatici afroamericani. Non avevo nessuno, tranne Kya. Anche lei era una schiava come me e anche lei non aveva una famiglia. Ero sempre stata una ragazza molto dolce e gentile, ma ero anche fragile e per questo molto spesso la sera, quando mi ritrovavo nella squallida soffitta dove dormivamo tutte insieme, piangevo, perché non sapevo spiegarmi il motivo per il quale quella sorte era toccata a me. La mia amica Kya lavorava con me, l’unica differenza era che io stavo in cucina, mentre lei puliva la casa del nostro padrone e, credetemi, se vi dico che in confronto io facevo metà del lavoro che svolgeva lei.
Dopo l’ennesima chiamata da parte della mia amica corsi per le scale e la trovai nell’enorme salone, seduta su un divano davanti al camino. “Cosa fai? Sai che non ti puoi sedere lì! Se il padrone vede che non stai lavorando ti farà frustare!” Le dissi io con un tono rabbioso, ma che celava la paura che stavo provando per lei. “Tranquilla, non c’è nessuno in casa, tranne qualche domestica, ma non penso che farebbero mai la spia”, mi rispose lei divertita nel vedere la mia faccia preoccupata. Subito mi rilassai e mi diressi verso il divano sedendomi accanto a lei. “Quindi perché mi hai chiamata? E dove sono andati i padroni?” Le chiesi curiosa. La vidi girarsi verso di me e con un sorriso a trentadue denti mi rispose: “Stamattina ho sentito il padrone e la padrona parlare: stavano discutendo delle elezioni del presidente degli Stati Uniti ed ho scoperto che è stato scelto Abraham Lincoln”. La guardai accigliata, non comprendendo quale fosse la grande notizia. Lei se ne accorse e prima che io glielo chiedessi mi precedette: “Si dice che lui sia contro la schiavitù, perciò sicuramente la abolirà, o almeno spero”. “Quindi finalmente saremo libere?” Le dissi, come se glielo stessi domandando, ma in realtà ero certa che finalmente avrei ottenuto ciò che aspettavo da anni: la libertà.
Passammo tutto il pomeriggio a parlare di quello che avremmo fatto insieme una volta che fossimo andate via da lì e decidemmo che saremmo andate a vivere insieme lontano dagli Stati Uniti. Le nostre chiacchiere continuarono fino a quando sentimmo il rumore di una carrozza che si era fermata davanti alla porta della casa, sobbalzai e mi ricordai che ancora non avevo finito di preparare il pranzo. La paura di quello che avrebbe potuto farmi il padrone, il signor Smith, mi fece tremare come una foglia e mi venne un capogiro, ma non potevo perdere tempo, così corsi in cucina mentre Kya andava ad aprire la porta. Arrivata davanti al tavolo vidi le cipolle che avevo iniziato a tagliare le buttai nel paiolo e accesi il fuoco con la legna sottostante. Sentii dei rumori di passi e trasalii. Mi voltai verso le scale e vidi il signor Smith arrabbiato, che mi fissava, mentre io, per la vergogna, spostavo il mio sguardo dai suoi occhi verso il suo completo bianco sporco e schiudevo le labbra per dire qualcosa. Lui mi bloccò: “Non voglio che tu mi adduca nessuna scusa per spiegarmi il motivo per cui il pranzo non è ancora pronto!” Gridò con tono rabbioso. “Scusi io…” Non mi diede il tempo di rispondere che mi strattonò il braccio e mi trascinò verso il ripostiglio delle scope e mi spinse dentro con così, tanta forza che io barcollai e caddi a terra. Batté la porta e la chiuse a chiave dicendo: “Resterai chiusa qui dentro fino a domani mattina e non ti sarà servito né cibo, né acqua. Così impari a non rispettare le regole da me imposte!”. Quando sentii i suoi passi abbastanza lontani iniziai a piangere. Dentro quel ripostiglio non entrava neanche uno spiraglio di luce e i miei occhi faticarono molto prima di abituarsi al buio. Passai la giornata ed anche la notte lì dentro, piangendo, mentre il mio stomaco brontolava per la fame. La mattina mi venne ad aprire una delle altre ragazze che lavoravano lì e appena uscita dal ripostiglio, sentii un dolore lancinante alla schiena, poiché avevo dormito sul pavimento ed anche gli occhi mi facevano male dal momento che fuori c’era un sole splendente ed io mi ero abituata al buio di quella piccola stanzetta. Da quel giorno, non infransi più le regole del mio padrone e continuai a lavorare ogni giorno nello stesso modo.
Passò molto tempo, quando un giorno arrivò una notizia che non mi sarei mai aspettata di sentire, corsi da Kya per avvisarla. “Kya”, la chiamai e dopo un po’ la trovai in giardino ad annaffiare i fiori: “Non siamo libere e mai lo saremo!” Le gridai con le lacrime agli occhi e lei mi guardò come se mi stesse chiedendo di spiegarmi meglio: “Per paura che il Presidente dichiari illegale la schiavitù, gli Stati del Sud usciranno dall’ Unione”. Lei rimase a bocca aperta, non sapendo cosa dire, mentre le mie lacrime continuavano a sgorgare incessantemente. Dopo poco, però, disse qualcosa “E ovviamente, con la fortuna che abbiamo, noi viviamo nella Carolina del Sud” e si mise a ridere, io rimasi spiazzata dalla sua reazione: “Perché ridi, cosa ci trovi di divertente nel sapere che non potrai mai essere libera, che non potrai crearti una vita tua, che continuerai a essere sfruttata per il colore della tua pelle ad essere maltrattata perché vista come di razza inferiore?” Le gridai con tutta la voce che avevo dentro, facendo emergere tutto il dolore che provavo da anni. Lei smise di ridere e mi guardò e intravidi una lacrima rigarle il volto. “Scusami mi dispiace è solo che non so come assimilare una notizia del genere!” Mi rispose abbracciandomi e insieme tornammo in casa. Passò ancora un paio di anni e la secessione degli Stati del Sud dall’ Unione e la fondazione della Confederazione, causò una vera e propria Guerra. E mentre la guerra si svolgeva io ero ancora nella casa del signor Smith a lavorare per lui. “Aisha hai sentito le notizie?” Mi chiese Kya mentre stavamo in cucina, io a preparare da mangiare e lei a pulire “In realtà no, sono stata molto occupata”, le risposi. “Sono state devastate città e campagne e ci sono stati 700’000 morti e 500’000 mutilati!” Mi rispose lei con la voce rotta, come se stesse cercando di trattenere le lacrime. “Tranquilla si sistemerà tutto!” Le dissi cercando di rassicurarla, mentre in realtà quelle parole più che a Kya le stavo dicendo a me stessa per cercare di convincermi che sarebbe andato tutto bene.
Finalmente arrivò il 1865: ora io avevo 21 anni e lavoravo ancora per i signori Smith. In realtà, per la signora Smith. La situazione era cambiata da quando il marito era morto durante la guerra. La mia vita era peggiorata, la vedova ora si sfogava su noi schiave, ci assegnava compiti ancora più faticosi e ci gridava e puniva per ogni piccolo sbaglio.
Quel giorno, mentre io, Kya e altre ragazze scendevamo dalla soffitta dove dormivamo, trovammo la signora Smith in piedi davanti all’entrata che teneva la porta aperta, noi ragazze iniziammo a guardarci perplesse poiché non capivamo per quale motivo stesse lì ferma ad osservarci in silenzio, ma subito lei ci rispose, levandoci ogni dubbio: “Abbiamo perso la guerra siete libere di andare”. Non ci credevo! Guardai Kya e mi diedi un pizzicotto sul braccio per accertarmi che fosse tutto vero e che non fosse uno dei tanti stupidi sogni che facevo di solito. Senza neanche pensarci due volte andai verso la mia amica, la presi per mano e la incitai a correre verso la porta e lei mi assecondò. Fummo le prime ad uscire, non salutammo nessuno ed iniziammo solamente a correre mano nella mano. Non avevo idea di dove saremmo andate, né di cosa avremmo fatto, ma sapendo che c’era lei con me mi sentivo più tranquilla.
Pochi anni dopo, ci trovavamo in un paesino della Georgia e ora io e Kya vivevamo insieme come ci eravamo ripromesse quel lontano 13 febbraio 1860. Ora eravamo libere: anche se non avevamo ancora ottenuto i diritti civili, avevamo conquistato i diritti politici.
Un giorno, io e Kya decidemmo di andare a fare una passeggiata nel bosco vicino alla nostra piccola casa: “Hai sentito anche tu uno strano rumore?” Mi chiese la mia amica preoccupata. “Sarà qualche animale”, dissi io, ma prima che potessi continuare sentii qualcuno mettermi un sacco sul viso e udii un grido soffocato di Kya, intuendo che avessero fatto la stessa cosa a lei. Cercai di divincolarmi, ma la persona che mi teneva era talmente forte che non mi mossi neanche di un centimetro. All’improvviso, sentii un forte dolore alla testa e svenni. Mi risvegliai legata ad un albero nel bosco e, sempre legata ad un albero vicinissimo a quello dove mi trovavo io, c’era Kya, ci guardammo intorno e vedemmo delle strane persone che indossavano dei camici bianchi che stavano a simboleggiare i fantasmi dei Sudisti morti durante la Guerra di secessione, con sopra una croce bianca. Intuii che quelle strane persone facevano parte di una delle sette razziali più famose: il Ku Kluk Klan. Mi girai verso la mia amica e lei mi guardò impaurita, segno che anche lei aveva capito chi fosse quella gente e così per tranquillizzarla le tesi la mano e lei l’afferrò.
Improvvisamente, vidi due figure incappucciate che si avvicinavano a noi con delle lance in mano: uno si posizionò davanti a me e uno davanti a Kya poi un altro di loro farfugliò qualcosa che non compresi e infine ci fu il buio totale.
Sì, ero morta.
Che strano, avevo sempre immaginato di morire di qualche malattia dovuta alle privazioni ed alle fatiche della vita, in casa dei signori Smith, invece ero morta felice: ero finalmente libera e cosa più importante ero morta mano nella mano con l’unica persona che aveva simboleggiato la mia famiglia da quando ero piccola!
Ginevra Chiara