Era il 4 giugno 1940, la Seconda Guerra mondiale era ormai iniziata e nelle campagne francesi, e non solo, c’era il caos. Gli uomini erano al fronte, le donne e i bambini lavoravano nei campi o nelle fabbriche per sopravvivere. In una piccola casa vivevamo in sei, poi diventammo quattro: il mio fratellino di pochi anni, Liam, così chiamato in memoria di mio padre andato in guerra e che non eravamo certi di rivedere, Milo di sette anni, mia mamma Erika, disperata per la perdita degli uomini di casa mio fratello maggiore e mio padre e io, Samia, una ragazza che in poco tempo si sarebbe trasformata in una donna. Mia madre era sofferente e triste, ma a noi figli non lo dava a vedere, ci voleva tenere all’oscuro di tutto per farci vivere un’infanzia spensierata e felice. Io, che ormai ero la sorella più grande dopo che il primogenito, Giulio, era andato via, capii la situazione, ma per non creare ulteriori problemi a mia madre decisi di appoggiare la sua scelta e le resi la vita più facile e leggera, per quel che valeva.
“Sveglia Samia! Sveglia! Forza!”
Una squillante, ma allo stesso tempo preoccupata voce mi giunse alle orecchie di prima mattina: proveniva dal piccolo Milo che, non vedendo mamma in casa al suo risveglio, andò in crisi. Mi svegliai e trovai Liam in lacrime a causa delle urla di nostro fratello e un biglietto di mamma con su scritto: “Torno a mezzogiorno, occupati dei tuoi fratelli”. Gli animi si calmarono e io, anche se con un po’ di difficoltà, mi occupai di loro che pian piano riuscii a tranquillizzare. La mamma, con un po’ di ritardo, rientrò a casa e diede la notizia. Le tasse erano alte e senza il lavoro di nostro fratello maggiore e di nostro padre a malapena riuscivamo a comprare quel po’ di pane che bastava per i bambini. Era arrivato il momento di procurarsi un po’ di denaro, una cosa nuova non solo per mamma, che per tutta la sua vita aveva accudito i suoi figli e fatto lavoretti in casa, ma anche per me, una ragazza che aveva appena compiuto dieci anni.
“Tranquilla bambina mia, è una cosa divertente e farai tante nuove amicizie”
Mi disse mamma per tranquillizzarmi, ma io ero cresciuta troppo in fretta, conoscevo queste situazioni e il teatrino che la mamma voleva far sembrare era un qualcosa di più serio, che una qualsiasi persona di dieci anni non dovrebbe affrontare. Immediatamente, oltre alla mia crescita prematura, ci fu quella di Milo che si dovette occupare del piccolo Liam.
“Cos’è mamma? Di cosa si tratta? Cosa devo fare? Come mi devo preparare?”
Non volevo essere un peso per lei o darle ansie, ma ero curiosa di sapere cosa avrei dovuto fare, nessuno lo sapeva, ma ero molto precisa e volevo sempre dare il meglio di me.
“Figlia mia, io non sarò con te. Molte persone sono in questa situazione e per questo tu e le tue coetanee andrete a lavorare in una fabbrica tessile, è divertente, potrete creare un qualcosa di utile e bello, mentre io cercherò di guadagnare con dei lavoretti qua e là, sarà uno spasso vedrai!”
Mi disse mamma. Le ho creduto e anche se il fatto di essere distanti mi causasse delle ansie non dissi nulla, accettai e basta, volevo fare il possibile per lei e per tutta la nostra famiglia. Era il 10 giugno, il fatidico giorno, ero alquanto emozionata e mi sembrava quasi un’uscita al parco. Alle 5 del mattino ero in piedi, forse anche per l’ansia, mi preparai e mi diressi verso la fabbrica con un’amica di mia madre e le sue due bambine, una della mia età e l’altra addirittura più piccola. Dopo quaranta minuti di una lunga camminata arrivammo alla fabbrica, un luogo veramente enorme, sia fuori che dentro alquanto cupo, ma non ci feci caso. Erano passati un po’ di giorni e quell’idea della fantastica giornata al parco svanì, era faticoso e sembrava una dittatura, non erano molto cordiali, anzi, ci trattavano da burattini che usavano e comandavano a loro piacimento. Eravamo utili solo per fabbricare e lavorare. La mamma era veramente esausta, ma, nonostante ciò, appena tornava a casa si impegnava sempre più e cercava di non caricare di troppo lavoro Milo che, a sette anni, aveva già troppe responsabilità. Un altro giorno di lavoro era arrivato, sveglia presto, come sempre, ed ero pronta per incontrare la mia migliore amica, Anna. Il tragitto era il momento che preferivo di più, potevo parlare di qualsiasi cosa con la mia amica: delle mie paure, dei miei sogni e anche delle antipatie e simpatie che provavo verso le persone, e lei lo faceva con me! Quel giorno, però, eravamo davvero esauste e la nostra voglia di star piegate a cucire era ancor meno. Mi ricordai di chi avevo a casa e di quello che dovevo e volevo fare per loro e mi misi al lavoro e lo stesso fece Anna, in fin dei conti, per quanto stancante, avere un’amica vicino rendeva anche le cose più brutte leggermente più piacevoli. Quando volevo rinunciare e smettere di fare sempre le stesse cose pesanti pensavo, soprattutto, a mio papà e mio fratello in guerra, che certamente stavano peggio di me e che, al loro eventuale ritorno, si meritavano di trovare la mamma serena, una casa accogliente, il cibo sulla tavola e i soldi per andare al mercato.
“Cinque minuti di pausa, non di più, dopo tornate al lavoro”
Ci dissero, a tutte noi nella fabbrica, di fare la nostra solita pausa, se così si può chiamare. In cinque minuti non ci si riusciva nemmeno a sgranchire le gambe e per questo io e Anna decidemmo di farci due passi, ne avevamo proprio bisogno e poi saremmo rientrate. Tra una chiacchiera e l’altra non facemmo caso ai minuti che passavano, ma se ne resero conto le autorità che ci domandarono subito perché non stavamo lavorando e dopo una sgridata che sembrava quasi un licenziamento ci scusammo e tornammo dentro senza fiatare. Loro, però, non ci passarono sopra così facilmente e, al termine dell’orario, ci trattennero per altre quattro ore e con noi anche tutte le ragazze del nostro gruppo che, pur non avendo fatto nulla, per colpa nostra, si ritrovarono in questa situazione. Per questo ci arrivarono anche un po’ di insulti dalle nostre compagne che, come noi, volevano tornare dalle loro famiglie. Avevamo finito, erano le 22 ed eravamo stremate, avrei solo voluto dormire per due giorni, ma io e la mia amica, dopo tutto quell’enorme lavoro, secondo il nostro capo, non ci meritavamo la paga. A noi andava bene anche quella solita, senza un extra per le ore in più, ma ci spedirono a casa a mani vuote. La mia mamma, una volta a casa, era preoccupata, non capiva il perché del mio ritardo e aveva intuito che la giornata non era andata bene. Io, quasi in lacrime, le spiegai la situazione. Lei non fece nulla, mi abbracciò e basta, rimase in silenzio per qualche minuto e poi aggiunse:
“Samia un giorno le cose cambieranno, tu e i tuoi fratelli vi meritate il meglio e, prima o poi, avrete la vita che sognate.”
Le preziose parole della mamma non sbagliavano mai, questo mi diede più speranza perché pensavo di essere una delusione per lei dopo esser tornata senza paga. Subito mi resi conto che non era così e che, anzi, lei era orgogliosa di me e da una parte, probabilmente, anche dispiaciuta per tutta la fatica che sopportavo in tenera età. Continuammo per molto tempo così, in questa che sembrava un’eterna agonia. Le cose non andarono meglio, tutto rimaneva uguale, però le persone erano tristi a seguito delle comunicazioni, sempre più frequenti, della morte dei loro famigliari. Era quasi finita la guerra e si sperava in una lettera da parte dei propri cari ancora in vita che, finalmente, arrivò anche a casa mia:
“Cara famiglia, ho le lacrime agli occhi al solo pensiero di potervi riabbracciare tutti, non sono stati tempi facili e ho vissuto cose traumatizzanti, come, ad esempio, la morte di papà…
Purtroppo, è stato colpito violentemente in uno scontro e, nonostante abbia tenuto duro per molto, ci ha lasciati. Ho avuto il tempo di metabolizzare la cosa e mi sono focalizzato su di voi, ho lottato e resistito solo per rivedervi e sono sciuro che anche il babbo l’abbia fatto, rimarrà sempre con noi. Ci vediamo presto e dite alla mamma di preparare il mio piatto preferito che in questi anni mi è mancato tantissimo!
-Giulio”
In quel momento pensai solo a mio padre, con lui anche una parte di me se ne era andata, la mamma era disperata, ma felice perché Giulio era vivo. Riflettemmo molto per accettare la morte di papà, fin quando non arrivò nostro fratello che ci fece tornare il buon umore. Non volle raccontarci della tragica scomparsa, si concentrò solo sulle cose che voleva fare con noi e su tutte le idee che aveva per migliorare la situazione della famiglia. Dopo molti sacrifici, finalmente, riuscimmo a trasferirci in città e fummo da subito più felici.
Liam riuscì ad andare a scuola proprio come Milo mentre io intrapresi gli studi di medicina e io diventai infermiera, fare qualcosa di utile per le persone mi faceva sentire bene. Giulio, grazie all’aiuto di nostra madre, aprì un negozio dove vendeva tutte le cose che nostro padre amava. Rimasi in contatto con la mia cara Anna che, come me, aveva perso il padre e ci consolammo a vicenda, come le vere amiche fanno. Ero finalmente felice e quella promessa, che un giorno saremmo stati davvero bene, era stata mantenuta.
Elena Cipriano