Giuseppe e la guerra

Era un giorno come gli altri e Giuseppe, un giovane di diciotto anni, stava andando a lavorare in fabbrica, era un ragazzo allegro e vivace; non amava il suo lavoro di tornitore: il salario era misero, i diritti dei lavoratori del tutto inesistenti, ma era necessario per aiutare la sua numerosa famiglia. Quella mattina, 24 maggio 1915, in fabbrica c’era fermento: cos’era successo? La notizia fu un fulmine a ciel sereno: l’Italia entrava ufficialmente in guerra al fianco dell’Intesa. Giuseppe fu così arruolato e partì per il fronte, sapeva a che cosa stava andando incontro e in pochi giorni si ritrovò sulla vetta del Monte Nero. Il giovane entrò per la prima volta nelle trincee, vide davanti a sé i cadaveri dei commilitoni uccisi dai cecchini. Tutti temevano il momento in cui l’ufficiale avrebbe gridato: “All’attacco!” Poiché sapevano che ci sarebbero state centinaia di vittime, legate alla difficoltà di tagliare il filo spinato nella terra di nessuno prima di arrivare alla trincea nemica. Giuseppe temeva per la sua vita e ogni giorno la sua preoccupazione saliva sempre di più. Un pomeriggio, durante il tempo libero, mentre molti fumavano e chiacchieravano, lui scrisse una lettera ai suoi:

“Carissima e stimatissima madre, come state? Qui si sta malissimo, all’alba ci svegliamo con il rumore assordante dei bombardamenti che ci terrorizzano. Sento dentro di me un fuoco che brucia, una tristezza e un dolore infiniti. Non importa chi mi trovo davanti: sono obbligato a uccidere senza guardare in faccia a nessuno! Non importa chi mi troverò davanti perché dovrò sparare lo stesso, senza oppormi agli ordini, anche se avrò la morte nel cuore. Capisco che sto commettendo del male, ma non posso disobbedire, uccido giovani come me, non è colpa loro se indossano una divisa diversa dalla mia! Nelle trincee, ho visto molti dei miei compagni morire di fame, di freddo, di stenti, di malattie. Il cibo è scarso, fa tanto freddo e non abbiamo di che coprirci durante le gelide notti all’addiaccio. Abbiamo, sulla carta, conquistato poche centinaia di metri di terra, ma in realtà abbiamo perso solamente giovani innocenti, in guerra, per volere dei potenti! Sono stanco di tutto questo, cara madre. Basta, ora basta! Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo: solo il rumore delle bombe, il gelo nelle ossa. Guardo incantato ciò che mi circonda e penso che, per la prima volta nella mia vita, provo paura. Ci rivedremo presto.

Vostro amatissimo Giuseppe

Dopo questa lettera, nessuno della sua famiglia ebbe più notizie di lui, nessuno ritrovò il suo corpo, fin quando, due anni dopo la fine della Grande Guerra, le sue spoglie vennero ritrovate sul Monte Nero e portate nella basilica di Aquileia insieme a quelle di altri soldati di cui si ignoravano le generalità. Uno tra loro fu scelto per rappresentare i nostri giovani caduti per la Patria, rimasti ignoti.

Francesco Moauro

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