L’infanzia di una volta

Erano le sette di mattina del 27 ottobre 1842 e nell’ospedale di Milano era arrivato il signor Giolitti che era pronto a far partorire sua moglie. Il bambino però non riusciva a respirare, solo dopo qualche tentativo si gonfiarono i suoi piccoli polmoni e fece uno strillo per avvertire l’ospedale della sua presenza. Il piccolo era un maschio e i genitori, ancora un po’ spaventati per ciò che era successo, si erano dimenticati di dargli un nome. Tornarono a casa e non avendo ancora deciso, lo fecero scegliere alla sorellina di tre anni, Rebecca, lei era una bambina dolce e gentile dai capelli d’oro e con degli occhi azzurro chiaro che mettevano in risalto il suo viso rotondo.

Appena le venne fatta la domanda, lei non esitò un attimo a rispondere e disse di volerlo chiamare Giovanni, lui aveva i capelli castani, gli occhi verde nocciola e un volto un po’ sporco, ma innocente. I due divennero inseparabili, infatti quando Giovanni vedeva Rebecca andar via anche solo per un istante lui scoppiava a piangere e non riusciva a calmarlo neanche la madre. I due passarono i primi anni della loro infanzia divertendosi e giocando, fino a quando non venne il 12 agosto 1899, il giorno dell’ottavo compleanno di Rebecca.

Per lei fu un giorno molto felice, però quello che non sapeva è che avrebbe dovuto iniziare a lavorare nella fabbrica insieme al padre e alla madre. All’inizio le cose andarono bene, fino a quando un giorno, avvenne un incidente che portò per sempre via la povera Rebecca. Giovanni non riuscì più a riprendersi, non rideva più e aveva anche perso la voglia di parlare.

Questo era causato anche dal fatto che non vedeva quasi mai i suoi genitori, infatti, mentre lavoravano, lui doveva stare insieme alla vicina, Gertrude, una vecchia signora di settantacinque anni, rimasta vedova che non gli rivolgeva mai la parola e se ne stava per conto suo sulla sedia a dondolo e dondolava fino a quando non si addormentava. Qualche volta si scordava persino di preparare da mangiare al piccolo Giovanni che restava digiuno per ore. Quando tornavano i genitori, loro erano stanchi e dopo aver finito di cenare, andavano subito a dormire e il povero Giovanni, carico di energia accumulata durante la giornata, restava sveglio per ore dentro il suo letto pensando al suo futuro.

Il fatidico giorno era arrivato, era il 27 ottobre 1850, Giovanni compiva 8 anni e come al solito festeggiava con l’anziana signora e poi con i genitori quando sarebbero tornati.

Lui però non era felice, perché sentiva ancora quel vuoto dentro di sé: la sorellina gli mancava tantissimo! La mattina seguente la madre lo svegliò, era prestissimo e Giovanni non riusciva ad alzarsi dal letto, non aveva nessuna voglia di iniziare a lavorare.

Appena il bambino entrò in fabbrica, notò subito i suoi colori scuri e i volti tristi degli operai al suo interno e questo gli fece salire un brivido lungo la schiena.

Gli operai erano quasi tutti uomini di mezza età, tranne un giovane ragazzo suo coetaneo, di nome Matteo, era molto magro. I due fecero subito amicizia e parlando si scoprì che provava anche lui lo stesso vuoto di Giovanni, infatti il suo amico aveva perso in fabbrica sua madre e ora viveva con il padre.

Grazie non gli pesava più andare a lavorare perché sapeva di avere un amico che gli sarebbe stato accanto e che lo avrebbe aiutato nei momenti più bui. Passò un po’ di tempo e il nostro Giovanni diventò grande e capì che bisognava fare qualcosa per chi lavorava nelle fabbriche, perché nessuno si meritava la fine di sua sorella. Lui studiò tantissimo e divenne deputato, a partire dal 1902, contribuì a varare la prima legislazione sociale italiana che salvò molte vite e concesse molto più spazio ai ragazzi per divertirsi e giocare.

Questo rese il nostro Giovanni orgoglioso di sé e quel vuoto, causato dalla morte prematura e ingiusta della sorella Rebecca, ora era riempito dall’onore che si era guadagnato.

Alessandro Tomassi

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