Commercio-Turismo, 7 milioni di lavoratori senza Contratto. Sindacati chiedono 300€

cassiera operaia lavoratrice

Se in Italia il tempo medio di attesa per il rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro è pari a 29,1 mesi, nel Commercio-Terziario-Servizi si è andato ben oltre. Lo ricorda il quotidiano La Stampa in edicola oggi con un titolo in prima pagina inequivolcabile: ”Sette milioni senza contratto, il commercio attende da 4 anni”.

I mesi di carenza contrattuale in questo comparto, che ricomprede anche il Turismo, sono arrivati praticamente a 48, se si include nel conteggio il prossimo dicembre. Il CCNL è scaduto il 31 dicembre 2019 e da allora i lavoratori hanno visto solo un acconto di 30 euro più un’Una tantum di 350 euro. E nulla di più.

Commercio-Turismo, aumenti da 300 euro ma l’IPCA non piace

Pesa sulle sorti del rinnovo la varietà delle sigle datoriali che tengono aperti 4 tavoli differenti con Filcams-Fisascat-Uiltucs. Più quelli del Turismo.

E più il mondo della rappresentanza delle aziende è vasto e diviso e più c’è il rischio che i tempi si dilatino. Non ci guadagnono di certo i lavoratori che si ritrovano ad avere a che fare con ‘portafogli’ con sensibilità differenti. Chi offre di più soldì sugli aumenti e chi di meno. La sintesi sul quotidiano torinese la fa il Segretario Generale Filcams Cgil Fabrizio Russo:

”per il settore terziario abbiamo chiesto aumenti in linea con l’indice IPCA, in media parliamo di 300 euro per coprire il periodo che va dal 2019 al 2023. La controfferta si è fermata solo alla metà dell’indica IPCA, in pratica siamo sui 100-150 euro. Oltre a questo Confcommercio ci ha anche chiesto di rivedere una serie di istituti come la quattordicesima, i permessi retribuiti e gli scatti di anzianità”.

Il nodo da sciogliere sta tutto lì, suoi soldi. Il sindacato chiede un adeguamento di 300 euro, in linea con l’indice IPCA elaborato all’Istat ogni anni. Così come prevedono gli accordi tra il mondo delle Aziende e sindacati. Mentre per le rappresentanze aziendale l’IPCA non può essere più un riferimento. In periodi di bassa inflazione l’indica inflattivo depurato del costo dei beni energetivi era ritenuto un valido riferimento per le Aziende, adesso che esprime valori più alti, in linea con il rialzo dei prezzi dei beni al consumo, la prospettiva è cambiata. L’IPCA non piace e i rinnovi tardano ad arrivare.